In un presente che vede le donne generalmente svantaggiate nell’ambito lavorativo, determinate professioni sono spesso ritenute più consone alla figura maschile. La possibilità di fare carriera è virtualmente aperta a chiunque, ma alcuni ambiti sono visti come poco adeguati alla natura femminile: se il campo dell’insegnamento è tradizionalmente a maggioranza femminile e quello delle professioni sanitarie è divenuto negli ultimi anni preminentemente un mondo che, usando una stucchevole espressione, potremmo definire in rosa, il settore della difesa è tuttora principalmente appannaggio dell’universo maschile. Oltre ai numeri minoritari, la mentalità generale esprime spesso scetticismo nell’accostamento degli elementi del binomio donna-divisa. Il retaggio storico e culturale che vede la donna spesso espressione di fragilità si traduce non senza difficoltà in un settore sovente associato al concetto di vigore. Nonostante una generica concezione comune, però, le donne possono accedere alle Forze armate dal 2000 e, ad oggi, rappresentano oltre il 7% dell’intero organico – una tendenza in crescita. La storia delle donne in divisa, però, inizia prima del nuovo millennio: nel 1961 entrano in servizio le prime ispettrici del neonato Corpo di polizia femminile, istituito nel 1959. Nel progressivo cammino dell’emancipazione femminile si inseriscono quindi anche le poliziotte come Emanuela Loi.
Emanuela Loi nasce nel 1967 a Cagliari e vive a Sestu, una cittadina della provincia. Cresce assieme ai genitori e a due fratelli maggiori fino al suo ingresso nella Polizia di Stato. Descritta come studiosa, pignola, leale e generosa, Loi sogna di diventare un’insegnante e frequenta l’Istituto magistrale De Sanctis di Cagliari. Si diploma, e segue la sorella maggiore nell’impegno nello studio per l’ingresso nelle forze dell’ordine. Sarà solo Emanuela ad assicurarsi un posto in Polizia, e per questo a trasferirsi presso la Scuola Allievi di Trieste. Prestato il giuramento nel 1989, viene trasferita a Palermo ed è una delle prime donne ad entrare nel servizio scorte. Non con una missione qualunque, ma con quella di difendere uno degli uomini più a rischio nel panorama nazionale: il giudice Paolo Borsellino, assieme a Giovanni Falcone in prima linea nella lotta alla Mafia in tutte le sue forme. Nel 1992 diviene nota al pubblico per essere divenuta la prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio: perde la vita, ancora ventiquattrenne, nella strage di via D’Amelio e nell’agosto dello stesso anno riceve la Medaglia d’oro al valor civile.
Emanuela Loi viene ricordata in molteplici contesti: interpretata da svariate attrici nell’abito di diverse opere televisive e cinematografiche, a lei sono intitolate scuole, vie e piazze in tutta italia. La sua stanza nella casa della famiglia d’origine è ad oggi quasi un museo: le fotografie e gli oggetti della sua infanzia e della sua adolescenza sono conservati, assieme alla Medaglia d’oro al valor civile, mantenendo ogni elemento fedele al passato: tale è la volontà della sua famiglia, il cui ricordo di Emanuela è ancora vivido e mantenuto vivo dall’impegno della sorella maggiore.
Le donne sono state storicamente associate ad un ruolo di cura e protezione in ambito familiare, e paradossalmente il loro ingresso nel mondo del lavoro è stato filtrato dalla necessità patriarcale di proteggere la delicatezza femminile (e la struttura sociale del tempo). Rispetto all’occupazione femminile, oggi gli ambiti sociale e sanitario e il mondo della bellezza sono sicuramente veicolo di autodeterminazione per le donne, la cui attenzione si rivolge in modo crescente anche nei confronti delle discipline Stem. La possibilità di perseguire una professione nel campo della difesa, espressione collettiva di una consuetudine sociale che vede la donna dedita alla cura, ha consentito di evidenziare figure come quella di Emanuela Loi e la relativa etica del lavoro. L’ingresso delle donne in determinati contesti professionali è ancora oggi troppo spesso visto come una concessione dettata solo da una questione di buon costume o di necessità: non è un caso che l’occupazione femminile sia cresciuta durante i periodi bellici – per questo l’accondiscendenza nei confronti della donna in carriera nasce dall’impiego in mestieri spesso manuali, e diviene reale approvazione e progresso a partire dal secolo scorso – in questo contesto, dunque, certamente anche la partecipazione femminile alla Resistenza ha contribuito a forgiare l’immagine di una donna ugualmente degna di essere impegnata socialmente.
Da queste esperienze, dunque, più settori (anche quelli tradizionalmente più legati all’espressione della virilità) si aprono all’esperienza femminile. Le origini eccezionali del lavoro femminile, però, spesso riecheggiano in una vocazione al perfezionismo che vuole donne spesso overeducate e fuori dal comune – un atteggiamento, questo, che sembra voler riproporre il concetto di eccezionalità nell’impiego femminile e il bisogno di compensare il fatto di non essere uomini con meriti tendenzialmente irraggiungibili dalla popolazione generale (basti pensare alla risonanza propria del nome di Marie Curie, notevolissima accademica due volte insignita del premio Nobel, e alla maggiore inconsapevolezza rispetto alle altrettanto notevoli figure di Lady Mary Wortley Montagu, Florence Nightingale, Isabella d’Este o Peggy Guggenheim).
L’esperienza di Emanuela Loi, dunque, ci fa riflettere sulla possibilità anche femminile di entrare nella Storia per mezzo della dedizione al lavoro: le donne non sono forti come gli uomini, ma quanto le stesse donne – ed è giusto che sia così.