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LA COSCIENZA DI ZETA

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1 giorno, 4034 giorni

La prima cosa che mi colpisce al risveglio è la sensazione di secchezza delle fauci, tipica di quando il consumo di alcool della sera precedente non è stato bilanciato da un’adeguata assunzione di acqua. In queste situazioni penso sempre alla massima del mio amico Matteo: «C’è un solo modo per evitare l’hangover: un litro d’acqua prima di dormire, e uno appena sveglio». Anche stavolta mi bacchetto per non aver seguito certe sagge direttive.

Il tempo di mettere il mondo a fuoco (troppo a fuoco, dato che mi sono addormentato con ancora le lenti a contatto addosso) e riconosco il viso di Lorenzo. Ci vediamo meno di quanto dovremmo, ma in compenso ci sentiamo così spesso che mio fratello lo chiama simpaticamente tua moglie. Il fatto che abbia trasformato la sua doppia in una tripla aprendo in tre una buffa poltrona-letto mi ha evitato di dover cercare alloggio a Milano in un weekend in cui praticamente tutti avrebbero voluto essere a Milano. Per inciso, in questi venticinque anni di vita ho dormito – pagando – in almeno una dozzina di sistemazioni più scomode di questa: estrema gratitudine.

Il briefing mattutino (anche se sono praticamente le 12) inizia dopo la prima sacrosanta sigaretta. In sottofondo c’è il Giro d’Italia, che oltre al milanismo è una delle tante passioni che abbiamo in comune. Oggi si arriva a Cogne, il percorso presenta un dislivello mostruoso e dopo la solita lotta iniziale è partita una fuga di qualità: dentro ci sono Carthy, Formolo e il nostro conterraneo Giulio Ciccone.

Lorenzo mi avverte che solitamente non fa una colazione abbondante. Io mi adatto, ma il menù ridefinisce la mia idea di pasto: caffè e corn flakes. A secco. Alla faccia del 25% del fabbisogno giornaliero, e della mia cara combo succo-caffè-latte-cereali-biscotti-merendine. Per fortuna il pranzo arriva presto, e il sugo fatto in casa riesce nel doppio obiettivo di farmi superare il trauma e di rendere gustosa la pasta integrale.

A pancia piena, si parte all’attacco: nella nostra innocenza contiamo di trovare un tavolino in un pub che trasmetta la partita. L’illusione si infrange dopo esattamente 22 chiamate: la risposta più cordiale è «no», quella che mi imbarazza di più è «siamo tutti prenotati da almeno una settimana». L’impreparazione porta all’improvvisazione ed allo sconforto, dunque attivo la linea diretta con Luca e Dario, che hanno viaggiato con me da Bologna trovando alloggio nel monolocale di Filippo il Romano, mitologica amicizia in comune. Almeno credo, dato che la sera prima, durante i preparativi per recarci all’evento di inaugurazione del Magnolia, ho inavvertitamente rovesciato il suo formicaio domestico (sì, avete letto bene) uccidendo tutte le povere formiche. Da allora mi appella solo come assassino.

In realtà, è proprio lui a toglierci le castagne dal fuoco. Mentre ci prepariamo a seguire rovinosamente la partita più importante della nostra vita appiccicati ad un computer o ad un telefono, Filippo ci dice che ha incrociato dei tifosi in Piazza Duomo, e di aver captato che fossero tutti diretti al Mind The Gap, storico punto di riferimento della sportività alcolica milanese: tutto pieno anche quello, ma è previsto uno schermo puntato verso l’esterno. La notizia basta per caricarci di entusiasmo, ansia ed adrenalina.

Partono i preparativi: dopo la doccia indosso il cimelio scelto per l’occasione, la divisa di casa della stagione 2019/20. La prima disegnata da Puma, per una stagione che il Milan ha chiuso al quinto posto, salvo dover rinunciare all’Europa League come parte di un settlement agreement con la UEFA al fine di evitare sanzioni economiche. Tempi bui, nei quali probabilmente non si intravedeva nemmeno il seme della cavalcata che ha portato il club alla partita di oggi: a Reggio Emilia, contro il Sassuolo, basterà non perdere per difendere i due punti di vantaggio sugli odiati rivali dell’Inter e conquistare il diciannovesimo scudetto. Il primo dopo undici anni. 4034 giorni.

Una volta vestito mi rendo conto che il mio corpo non ha nessuna intenzione di rimanere fermo, e comincio a solcare nervosamente il corridoio mentre Lorenzo è in doccia. Nel timore di scolorire le mattonelle, decido di cogliere la scusa buona e uscire: quelle che ho rimosso con estrema fatica stamattina erano le ultime due lenti a contatto, e i miei occhiali sono troppo vecchi per permettermi di vedere nitidamente a distanza. La paura di perdermi un momento cruciale per colpa della miopia è troppa. Durante il tragitto verso l’ottica incrocio un ragazzo sulla trentina, tuta e cappellino nerazzurri e la gigantesca scritta FC INTER stampata sul petto. Il nostro sguardo si incrocia come in un film western, ma probabilmente siamo entrambi troppo tesi per proferire parole, siano esse di distensione o di sfida.

La proprietaria dell’ottica, sorridendo, mi dice che i suoi figli sono a San Siro per Inter-Sampdoria. Io le accenno alla difficoltà nel trovare i biglietti per il Mapei Stadium, e ricambio il sorriso dicendo che in fondo il bello dello sport è questo, rispettarsi e tifare ognuno per la propria squadra, e che vinca il migliore. Chiudendomi la porta alle spalle, spero solo che i figli piangano tutte le lacrime che hanno in corpo.

Per grazia di dio al mio ritorno Lorenzo è pronto – non avrei sopportato un minuto in più in uno spazio chiuso – e si aggregano a noi anche suo cugino Emanuele (del calcio non gli frega nulla, ma sembra proprio la persona giusta per alleggerirci e fare da fluidificante per la nostra tensione) e il suo amico Jacopo, che si presenta parlando della posizione strategica del suo parcheggio: milanista, ma soprattutto milanese.

Quando arriviamo a prendere posto al Mind The Gap manca mezz’ora al fischio d’inizio, e troviamo già diverse decine di persone. Un improvvisato blocco stradale a tinte rossonere che si estende dal marciapiede del locale sull’intera larghezza di Via Curtatone, fino ad un pick-up parcheggiato esattamente davanti allo schermo e carico di tifosi come fosse un carro-bestiame.

L’avvicinamento alla partita è più light del previsto: l’intento principale di quasi tutti è procurarsi da bere – scelgo una IPA, sintomo preoccupante che i miei gusti in fatto di birre siano definitivamente diventati meno restrittivi – e successivamente trovare uno slot che permetta una visione decente dello schermo 32 pollici attraverso la calca.

Il mio è davanti a Jacopo, che a sua volta precede Lorenzo ed Emanuele. Rigoroso ordine di statura. Luca e Dario arrivano a cinque minuti dal fischio di inizio e formano una piccola exclave laterale rispetto a noi, perché «almeno vediamo». Accanto a me c’è tale Laura, che si è fatta stampare il nome su una maglia anni ’90, sopra al numero 6. Tra un coro e l’altro le ricordo che è un numero pesante, in rossonero. Lei mi dice che l’ha scelto solo perché è il suo giorno di nascita. Il senso di blasfemia rimane comunque persistente dentro di me.

Per fortuna è già tempo di partita: Pioli col classico 4-2-3-1, davanti a Maignan ci sono Tomori e Kalulu – una coppia nata nell’emergenza e diventata ben presto un capolavoro di energia, intesa e solidità – Calabria, capitano, a destra, Theo a sinistra. Kessié, all’ultima in rossonero (dopo quella che in gergo si chiama telenovela, ha annunciato di non voler rinnovare il contratto in scadenza) affianca Tonali, protagonista di praticamente tutti i punti chiave di questa lunga stagione: se siamo qui è anche e soprattutto merito suo. Davanti, due dinamo come Krunic e Saelemakers, il totem Giroud – comunque andrà, dalla doppietta contro l’Inter in poi si è guadagnato un posto speciale nel mio cuore – e Rafael Leao.

Unanimemente, il 23enne portoghese è considerato il miglior giocatore di questa stagione di Serie A, ma negli ultimi mesi è diventato un vero e proprio bug calcistico: nessuno sa come contenerlo, nessuno riesce a porgli delle contromisure e lui, in un principio di delirio di onnipotenza, fa letteralmente quello che vuole con la palla tra i piedi. Le sue accelerazioni fulminee sulla fascia sinistra piegano le gambe a qualsiasi difensore, e mi ricordano un dettaglio di quando da bambino giocavo a FIFA con mio cugino Andrea, fratello di fede calcistica e non solo. In una particolare edizione del videogioco, avevamo scoperto che crossando verso la porta da una precisa zona di campo ad una determinata potenza, si poteva scavalcare il portiere senza innescare il movimento automatico della parata: un gol sistematico. Dopo poco, però, nel regolamento strettissimo di casa nostra, il gol con la X era stato rigidamente bandito, pena insulti e strattoni vari. Leao mi provoca lo stesso senso di manifesta superiorità, e riesco solo ad immaginare la frustrazione di chi è costretto a trovarselo davanti come avversario, consapevole che possa sgusciare via in qualsiasi momento e seminare il panico in pochi secondi.

L’ultimo pensiero extra-calcistico va a Giulio Ciccone: dallo schermo del telefono lo vedo trionfare in fuga solitaria, a Cogne, lanciando gli occhiali in aria in un gesto che a suo modo è già iconico. Dopo tanti bocconi amari, dopo tante delusioni, la sensazione è che si sia tolto un peso dalle spalle. Sorrido, e dentro di me mi affido alla simbologia: che sia una metafora di buon auspicio.

La partita viene inaugurata da un grido animalesco, un po’ di tensione un po’ di paura.
Paura che dura esattamente diciassette minuti: Leao recupera palla a centrocampo, si invola sulla sinistra, si libera di Ayhan come quando ci si scansa una fastidiosa mosca dalla spalla, e mette al centro. Arriva puntuale Giroud: la girata di sinistro è sporca, lenta, centrale, ma si infila sotto le gambe di Consigli, che tocca solo col piede, in un momento che dura un’ora. Un sospiro collettivo, un attimo di silenzio, e la strana piazza improvvisata esplode: mi giro istintivamente e vedo Lorenzo con la faccia deformata da un grido, prima che tutti si lancino addosso a tutti in un delirio di gioia.

I presenti sembrano uniti da un pensiero unico: la partita è sbloccata. Tutto è ancora possibile, ma se non altro stiamo allontanando il pensiero di un drammatico finale impantanato sullo 0-0 in cui il minimo errore potrebbe rivelarsi sanguinosissimo.
La tensione rimane, Jacopo mi tiene le mani poggiate sulle spalle come fossi una stampella: un piccolo gesto che mi rende felice, mi fa sentire a suo modo parte di un qualcosa. Nel frattempo il Milan attacca in continuazione, ad ondate. Alla faccia della paura che mi perseguita da giorni: una squadra così giovane potrebbe sentire il peso del grande appuntamento ed avere un po’ di braccino proprio sul più bello. Per un attimo penso al pre-partita, allo spogliatoio. Avranno parlato Ibrahimovic, Giroud, Florenzi. I grandi vecchi, che pure sono a Milano da relativamente poco. Romagnoli, il capitano, che pur avendo annunciato già l’addio a fine stagione rimane uno di quelli che ha vissuto tutta la seconda parte della banter era, com’è stato simpaticamente definito dal mondo di Twitter l’ultimo decennio rossonero: dal gol di Brignoli ai derby persi senza storia, da Bonucci capitano al 5-0 contro l’Atalanta, dal 3-6-1 di Inzaghi alla drammatica parentesi di Giampaolo, un vero e proprio museo degli orrori calcistici da tenere vivo ad imperitura memoria.

Passano 15 minuti, e il bug si ripete: ancora Leao a sinistra – stavolta la figura la fanno Ferrari e Müldur –, ancora Giroud a girare di sinistro il cross dal fondo. Stavolta Consigli non riesce neanche a buttarsi. Secondo boato, secondo momento di delirio: stavolta trovo subito le braccia di Lorenzo, che mi stringe al petto senza smettere di urlare, poi corro da Luca. Ha il viso illuminato – non che sia una novità, essendo una persona magnificamente solare anche nei momenti più difficili –; gli salto in braccio come se non ci vedessimo da anni. Dario, da dietro, sta facendo un video, e mi regala inconsapevolmente dieci secondi da riguardare ogni volta che mi sento triste.

Tempo di ricomporci, e la partita si inclina definitivamente: ancora Leao, in un primo tempo di una superiorità quasi imbarazzante, serve il rimorchio di Kessié che, con estrema facilità, butta giù la porta. Mi balena in testa un’immagine iconica: Sandro Pertini che, in tribuna al Bernabeu per la finale del mondiale 1982, grida «Non ci prendono più, non ci prendono più!». L’intervallo è già festa: ci riforniamo di birre, ci comunichiamo reciproca incredulità. Tre gol in 36 minuti, nemmeno nei migliori sogni bagnati.

Gli ultimi 45 sono solo un lungo countdown: i cori si ripetono – a Calhanoglu saranno fischiate le orecchie –, si salta, qualcuno predica calma ed accenna timidamente ad Istanbul 2005 rischiando il linciaggio. Altri usano le bandiere come una specie di limbo, facendoci passare sotto le macchine che transitano e che, a loro volta, sparano nell’aria rumore di clacson.

Le immagini in tv indugiano sui vari protagonisti, via via sempre meno tesi e più festanti. Mi fermo a pensare quando questo scudetto sia uno sforzo collettivo, frutto di un progetto calcistico di comunità, visionario e coraggioso.
Paolo Maldini, lasciato fuori da quella che è casa sua a tutti gli effetti per troppi anni, che torna al timone affiancato da Ricky Massara. Nell’ultimo biennio non hanno sbagliato praticamente nulla, e questa rosa è soprattutto frutto delle loro intuizioni. Il monte ingaggi parla chiaro: Leao, acquistato per 30 milioni di euro, ne guadagna 1,4. Tonali addirittura 1,2. E ancora i 600.000 euro di Kalulu (il cui cartellino costò meno di mezzo milione), i 2 milioni di Tomori ed i 2,8 di Maignan. Oggi valgono tutti due o tre volte tanto, e se è vero che il calcio non si fa con le cifre, è evidente come i rossoneri stiano raccogliendo i frutti di investimenti audaci su giovani talenti e scommesse vinte a posteriori.
E poi Stefano Pioli, che a questa squadra ha dato un identità proprio quando sembrava averne meno, che ha saputo tenere insieme uno spogliatoio giovane, muovendolo verso un obiettivo comune per mezzo di un gioco moderno ed efficace. E ancora i giocatori, lo staff, i tifosi che gremiscono il Mapei Stadium come se fosse stato catapultato in centro a Milano.

Finalmente arriva il triplice fischio. Non ci sono più pensieri, non ci sono più timori. C’è spazio solo per la gioia, estrema e diretta. Il sintomo di una passione tanto incomprensibile – per me – quanto inevitabile. Spesso, scherzando con i miei amici, dico che vorrei con tutto il cuore non essere tifoso, ma mi è semplicemente impossibile. Come chiedere ad un religioso di smettere di pregare.

Ed è lì, in mezzo ad un vicolo del centro di Milano, che questa passione mi presenta il dolcissimo conto: mi accascio e piango, quasi imbarazzato, come un bambino che di tutta quella emozione non sa cosa farsene. Luca mi bacia la testa, gli altri mi danno pacche sulle spalle. Mi allontano per videochiamare mio padre: tante partite le abbiamo viste o commentate insieme, la mia ossessione verso il calcio viene da lui, e lo viviamo talmente in simbiosi che nel corso degli anni ha quasi messo da parte il suo essere juventino per accompagnarmi nei miei deliri rossoneri.
Ha gli occhi lucidi, mi dice che è contento, che il Milan se l’è meritato. Gli faccio vedere le immagini della folla festante, e mentre lo faccio un ragazzo che non conosco, a petto nudo, mi abbraccia da dietro. Affetto sdoganato su tutta la linea.

Appena tornato dai miei compagni, ci mettiamo in viaggio verso Piazza Duomo: un lunghissimo cordone di pedoni rossoneri, affiancati da motorini, auto, biciclette, tutti rigorosamente drappati di stendardi, bandiere, magliette. Un pellegrinaggio quasi sacrale, in cui tutti ci guardiamo in faccia manifestando l’incredulità, più della gioia. Una lunghissima rincorsa durata nove mesi, ma in realtà undici anni, che si concretizza in un paio di chilometri percorsi a piedi, fino alla terra promessa: al nostro arrivo la piazza è già gremita tutta attorno all’imponente palco di Radio Italia Live, incendiata da canti e fumogeni.

In mezzo al marasma riusciamo a rifornirci di birre, ad incontrare casualmente altri due compaesani ma soprattutto amici – Marcello e Carlo, che non smette di saltare come se avesse le molle sotto i piedi –e ad osservare uno spaccato indimenticabile di passione milanista: ci sono degli over-60 con le maglie di Baresi, padri di famiglia con quelle degli olandesi, e poi ancora Shevchenko, Kakà, Nesta, Inzaghi, fino ai vari Theo, Ibra, Leao. Maglie rossonere, bianche, verdi, qui e lì si intravede anche la splendida terza divisa blu di qualche anno fa.
Intere generazioni di tifosi fianco a fianco, senza una partita da vedere, senza una squadra da acclamare – l’autobus rientrerà a Milano solo a tarda notte, dirigendosi a Casa Milan e sfilando l’indomani per le strade della città –, senza un particolare obiettivo se non quello di condividere una passione, di moltiplicare la gioia un abbraccio dopo l’altro, un sorriso dopo l’altro, un coro dopo l’altro.
C’è gente arrampicata ovunque, sui lampioni e sulle statue in piazza, ci sono famiglie intere tutte addobbate di rossonero: si scattano foto ricordo, ci si abbraccia randomicamente. Non riesco a non pensare di essere nel mio posto nel mondo, e non riesco neanche a ricordare da quanto io stessi aspettando un momento del genere, nella mia vita di tifoso e non solo.

Andando a cena perdiamo Luca e Dario, ma ci ricongiungiamo in zona, all’Ostello Bello: hanno raggiunto Filippo, e Luca sembra abbastanza impegnato nel farsi mangiare con gli occhi da una ragazza australiana. Nel tragitto incrocio Gino Cervi, storica firma del giornalismo sportivo italiano ed enciclopedia del ciclismo, oltre che grande tifoso milanista. Gli dico che abbiamo due passioni in comune, che lo stimo, e che oggi sono ancora più felice dato che un abruzzese ha vinto al Giro. Lui è raggiante, sorride e mi congeda con «Grande Ciccone, e grande Milan!».

In questa lunghissima giornata c’è ancora tempo per qualche Caffé Borghetti, molte chiacchiere ed una partita a biliardino. Sdraiandomi finalmente a letto provo molto più sollievo del previsto – è uno di quei giorni in cui vorrei smontarmi le gambe come un Lego – ma non riesco a fare un punto delle mie emozioni, che continuano a rotearmi dentro e attorno come elettroni impazziti. Ci rinuncio, ma mentre mi addormento sento che la felicità mi abbraccia stretta.