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La stagione del lavoro viene e va. E con lei i diritti dei lavoratori

Il primo maggio porta con sé le tipiche riflessioni sul mondo del lavoro, le inchieste sulla tragica situazione delle politiche italiane a riguardo e gli insight sulle condizioni della classe sociale più povera. E non solo, con l’avvicinarsi dell’estate riprende anche la consueta lamentela sui giovani che non hanno voglia di lavorare, spesso proveniente da proprietari di aziende private in cerca di lavoratori stagionali. Infatti il lavoro stagionale viene spesso considerato una soluzione per giovani in cerca di un’occupazione saltuaria, a supporto di un tipo di politica che lascia lavoratori stagionali abbandonati a se stessi.

Cosa si intende per lavoro stagionale?
A livello burocratico si tratta di «una particolare forma di contratto a termine che può essere stipulato per lo svolgimento delle attività stagionali previste dalla legge e dai contratti collettivi applicati dai datori di lavoro», come riportato da FILCAMS, sindacato dei lavoratori del terziario, turismo e servizi. Legalmente spetterebbero ai lavoratori stagionali gli stessi diritti riservati a qualsiasi impiegato a tempo determinato, eppure basta essersi confrontati con chiunque abbia lavorato in ambiente turistico per rendersi conto di quanto sia difficile anche solo ricevere una proposta che non preveda un qualche tipo di illecito. La situazione peggiora drasticamente considerando il sostegno statale quasi inesistente.

Datori di lavoro e lavoratori: due narrazioni opposte
Già nel 2021 Open portò avanti un’inchiesta illuminante sul tema, mettendo a confronto il punto di vista dei datori di lavoro da un lato e dei lavoratori dall’altro. Se ne evince una situazione tragica che negli ultimi anni non si è minimamente modificata.
L’ambiente imprenditoriale si trincera dietro scuse immaginarie, peraltro smentite dai dati, pur di non riconoscere la mancanza totale di diritti dei dipendenti. Come riportato nell’inchiesta, la motivazione principale per cui gli imprenditori ritenevano di non trovare più personale era il reddito di cittadinanza. Peccato che, come riportato da ANLS (Associazione Nazionale dei Lavoratori Stagionali), la situazione non sia cambiata neanche con la sua abolizione.
Le condizioni di lavoro sembrano ripercorrere degli schemi ricorrenti: contratti, se presenti, poco chiari e di tipologie che non rispecchiano le mansioni svolte (ad esempio apprendistati o mansioni e livelli del CCNL Turismo inferiori a quelli previsti per il reale lavoro svolto), orari di lavoro ben oltre le 8 ore giornaliere, spesso senza riposo, i  cosiddetti “fuori busta”, e nessun tipo di assicurazione.
Anche i dati sembrano contraddire le lamentele dei proprietari di aziende del terzo settore. Secondo l’osservatorio sul precariato dell’INPS, nel 2023 le assunzioni stagionali sono infatti aumentate (anche se solo di circa l’1%) rispetto al 2022, dato comunque positivo rispetto al periodo pre-pandemia. Sembra quindi non essere vero che non si trovino più dipendenti per il lavoro estivo, ma che anzi i numeri siano pressoché stabili, almeno negli ultimi anni.
Quello che potrebbe essere più aderente alla realtà è il discorso riguardante i giovani, o in generale lo spirito di sacrificio apparentemente sparito, secondo le opinioni degli imprenditori. Se da un lato alcuni dati sembrano effettivamente mostrare che la Generazione Z abbia un’etica del lavoro completamente diversa rispetto alle generazioni precedenti, questo non basta a spiegare la problematicità del lavoro stagionale. Per essere precisi sarebbe infatti corretto dire che la generazione Z non accetti più situazioni più simili allo sfruttamento che ad un normale lavoro. Quando si palesa un disagio a livello sociale è forse necessaria un’analisi più sistematica che guardi anche alla politica.

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I dati sul lavoro stagionale
È quello che cerca di fare ANLS, primo sindacato del lavoro stagionale fondato da Giovanni Cafagna. Nella già citata inchiesta di Open, proprio Cafagna portò alla luce i principali punti di cui la politica si è lavata le mani, portando il mondo del lavoro stagionale al tracollo.
Secondo il fondatore di ANLS i primi problemi arrivarono con il Jobs Act del governo Renzi, in particolare con l’introduzione della Naspi (indennità di disoccupazione). Come riportato anche sul sito di ANLS, il sussidio della Naspi ha comportato per i lavoratori una drastica riduzione del totale percepito rispetto alla normativa precedente.
A livello di numeri, prima dell’introduzione della Naspi la copertura poteva durare fino a 8 mesi e prevedeva un sussidio pari al 60% delle ultime tre mensilità. La Naspi prevede, invece, un importo solo per metà delle settimane lavorative (dunque per percepirla per 8 mesi sarebbe necessario lavorarne circa 16, per definizione impossibile per un lavoratore stagionale) pari al 75% di 1180 euro più il 25% della differenza tra il compenso mensile percepito e 1180 euro. Sul proprio sito ANLS propone anche alcune possibili alternative che permetterebbero sia un risparmio per le casse dello Stato che la possibilità per gli stagionali di vivere adeguatamente nel periodo invernale.
Oltre questo problema Cafagna sottolinea come i rapporti stagionali siano sempre più vicini allo sfruttamento che ad un reale rapporto di lavoro. Turni interminabili anche da 14 ore senza giorni di riposo e costantemente sotto stress, soprattutto se si parla del mondo della ristorazione.
Basta consultare i dati dell’Ispettorato del lavoro per avere rapida conferma di quanto affermato da Cafagna, anche a due anni di distanza. Nel rapporto sull’attività di vigilanza del 2023 risulta infatti che nel settore alberghiero e della ristorazione la percentuale di verifiche irregolari sia circa del 70/80%, senza alcuna distinzione territoriale (i dati sono accorpati da tre Direzioni Interregionali del lavoro: DIL Nord, Centro e Sud). Di queste, sempre senza distinzioni territoriali, il numero maggiore di violazioni riguarda il lavoro nero (26% in più del 2022), gli orari di lavoro e la violazione di norme riguardanti salute e sicurezza o norme amministrative.
Questo scenario sembra mettere in dubbio la versione dei datori di lavoro che da anni lamentano una difficoltà nel trovare lavoratori, spostando il focus su un problema sistematico e politico che sta probabilmente portando a scelte lavorative e ad una consapevolezza sociale diverse. Il problema di creare posti di lavoro e soprattutto di renderli appetibili è sempre di chi quel lavoro lo offre, non di chi accetta di farlo per sopravvivere.