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Sul caso Soumahoro

Qualche mese fa vi sarete certamente imbattuti negli articoli che riportavano le vicende giudiziarie della suocera e della compagna del neoeletto deputato Aboubakar Soumahoro. Molto probabilmente, perlomeno all’inizio, potreste essere inciampati nei roboanti titoloni che li accompagnavano, correndo il rischio di reputare indagato – e quindi potenzialmente colpevole – lo stesso Soumahoro.

Dopo una ventennale esperienza di lotta sindacale per la difesa dei migranti sfruttati nelle filiere agricole, culminata nella fondazione della Lega Braccianti, l’attivista italo-ivoriano si è candidato con successo alle scorse elezioni politiche nelle fila della coalizione Verdi-Sinistra Italiana. La sua elezione a parlamentare è però divenuta in poco tempo controversa. Nel mese di novembre, infatti, Soumahoro si è ritrovato al centro di una bufera mediatica scaturita dalle indagini della procura di Latina nei confronti di sua suocera, Marie Therese Mukamitsindo, accusata dei mancati pagamenti degli stipendi ai dipendenti della cooperativa da lei fondata, nonché di essere responsabile delle cattive condizioni in cui avrebbe ospitato alcuni richiedenti asilo nelle strutture da lei gestite.

Qualche giorno fa, cinque mesi dopo la gogna mediatica cui è stato sottoposto il parlamentare, è arrivato finalmente il verdetto, a conferma di quanto era già chiaro: Soumahoro non è in alcun modo coinvolto nei fatti di cui sono accusati i suoi familiari. Mukamitsindo è indagata per fatti di entità molto minore rispetto alle iniziali premesse: cadono le accuse di sfruttamento e maltrattamento di migranti, rimane quella di evasione fiscale. Liliane Murekatete, moglie del parlamentare, invece, è stata accusata di omessa vigilanza per un danno erariale complessivo di 13.368 euro (di cui soltanto 4.456 a suo carico).
Accusa che ai tempi le ha fruttato una generosa gogna mediatica, culminata con la condivisione di sue foto intime, già presenti sul profilo Facebook di un fotografo che gliele aveva scattate.

Ciò su cui sarebbe importante spendere una riflessione è l’accanimento mediatico che si è riversato sul suo indiretto protagonista. Emblematico del fenomeno è il titolo che Massimiliano Smeriglio, eurodeputato PD, ha scelto di dare al suo recente articolo comparso su Il Riformista: Soumahoro è completamente innocente, ma intanto è stato linciato. Finora – ed è passato già qualche giorno – quello di Smeriglio è stato uno dei due soli articoli che hanno fatto seguito alla chiusura delle indagini della procura di Latina. L’altro è a firma di Federica Olivo sull’Huffington Post.

Ciò che dovrebbe saltare all’occhio è il minuscolo spazio mediatico concesso all’epilogo di questa vicenda rispetto alla chiassosa mole di contenuti che a Novembre condannavano in partenza il parlamentare, tacciandolo delle più svariate colpe, etiche e materiali, fino a usarlo come assolutore delle tesi più deliberatamente razziste delle sue controparti politiche.

Già nel 2011 la Cassazione sottolineava tramite una sentenza come spetti «agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare, la collettività».

Mentre nel 2014 le Sezioni Unite della Cassazione stabilivano che «Non può tacersi che nell’attuale società mediatica l’opinione pubblica tende ad assumere come veri i fatti rappresentati dai media, se non immediatamente contestati: la verità mediatica, cioè quella raccontata dai media, si sovrappone, infatti, alla verità storica e si fissa nella memoria collettiva».

A voler tirare le somme della vicenda, può concludersi che questa sia molto complessa, dai connotati torbidi, e che abbia inevitabilmente segnato l’immagine di un parlamentare che da più di vent’anni lotta incessantemente per la dignità degli ultimi, degli invisibili, inquinando la reputazione che in precedenza si era guadagnato. Una leggerezza – come l’ha definita lui stesso – che risulta tanto conflittuale con la sua missione da apparire imperdonabile agli occhi dell’opinione pubblica, e che rischia di far decadere l’importanza della sua lotta.