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LA COSCIENZA DI ZETA

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Altro giro, altra crisi (di governo)

In questi giorni si è tornato a parlare a gran voce di una crisi di governo, l’ennesima di questa legislatura.

Prima di tutto è utile ricordare che il Governo Draghi nasce nel febbraio 2021 (a sua volta a seguito di una prima crisi) ed è un governo tecnico di larghe intese: ciò significa che a dare la fiducia sono tutti i grandi partiti, ad eccezione di Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni, infatti, ha formato un’esigua opposizione insieme a pochi altri partiti minori.

Pur facendo un passo indietro, le motivazioni che hanno portato questo esecutivo a crollare dopo poco più di un anno non appaiono chiare e definite fin da subito, come d’altronde era già accaduto anche altre volte in passato. Di fatto, il Conte I era terminato per quello che potremmo definire protagonismo salviniano, mentre il Conte II è perito sotto il «machiavellico disegno di Matteo Renzi». 

Oggi, invece, ci troviamo a fare i conti con un insieme di fattori, quasi tutti dettati da spinte individualistiche. Questa crisi, si è sviluppata piuttosto velocemente ed in maniera ambigua al pari delle precedenti. Formalmente, essa nasce intorno al voto di fiducia dello scorso giovedì 14, che ha visto astenersi il Movimento 5 Stelle. Il 6 agosto 2021, la dirigenza dei pentastellati è goffamente passata all’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che aveva precedentemente sostenuto il Governo Draghi per quel «senso di responsabilità» verso il paese che era nel picco dell’emergenza sanitaria. Tuttavia quest’ultimo, nonostante alla pandemia si sia aggiunta la guerra ed il conseguente dissesto economico, sembrerebbe improvvisamente sparito. Il tutto mentre il fu partito più votato alle ultime elezioni è nel bel mezzo di una crisi politica con pochi precedenti: da mesi in caduta libera in termini di consensi, ha dovuto subire una pesante scissione per mano del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha fondato il suo Insieme per il futuro trascinandosi dietro una sessantina di deputati e senatori.

La scelta di Giuseppe Conte di non votare la fiducia sul decreto Aiuti arriva in seguito a quella che appare una strategia elettorale per recuperare consensi: diventare chi è «contro il sistema», abbandonando il governo e denunciandone i difetti, per posizionarsi all’opposizione e dire agli altri cosa sbagliano. Peccato che, come forza di maggioranza in Parlamento, il M5S sia stato il vertice di quello stesso sistema, governando con la destra, con la sinistra, con il centro, con i tecnici. A meno di un anno dalle elezioni, provocare una crisi di governo per farsi qualche mese di battaglia nelle aule del parlamento è l’ennesima caduta di stile di un partito che si è dimostrato immaturo ed inadeguato.

Tra le varie cause, alcune citate espressamente da Conte nel discorso pubblicato sui social l’altro ieri, possiamo sicuramente riportare i già aspri rapporti tra l’ex premier ed il primo ministro Draghi per via del contestato invio di armi in Ucraina. Ironico che il M5S abbia ceduto su tutto, tra TAV, TAP, alleanze e promesse non mantenute, ma che l’intransigenza sia riaffiorata solo in un momento preciso. Inoltre, tra spaccature interne, un ruolo nel governo sempre più marginale e una posizione nei sondaggi ai minimi storici (attualmente un 10% destinato a calare ulteriormente), Conte ha consegnato un documento a Draghi con i nove punti fondamentali del M5S per cambiare l’Italia. Azioni che avrebbe potuto attuare prima, essendo stato premier in due diversi governi.

Nelle ultime ore, a seguito dell’ennesima assemblea-fiume degli eletti del M5S, è arrivato un segnale molto forte: pare stia prendendo forma un nutrito gruppo interno che non condivide lo strappo del leader politico e per questo potrebbe uscire dal partito per dare pieno sostegno all’attuale Presidente del Consiglio. A tal proposito si attende il discorso di Davide Crippa, capogruppo alla Camera dei pentastellati, il quale sembra essere uno dei più contrari alla linea dettata da Giuseppe Conte.

Tutta questa situazione ha portato il Presidente del Consiglio Mario Draghi a presentare ufficialmente le sue dimissioni al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il quale, piuttosto inaspettatamente, le ha rifiutate, invitandolo «a presentarsi al Parlamento perché si effettui una valutazione della situazione». La crisi di governo, almeno formalmente, è rimandata e non è chiaro se mercoledì 20 luglio Draghi confermerà le dimissioni o se per allora la situazione sarà cambiata un’altra volta.

Da alcuni partiti è emersa ufficialmente l’intenzione di provare a formare una nuova maggioranza che sostenga un secondo governo Draghi: lo hanno detto il segretario del Partito Democratico Enrico Letta e il leader di Italia Viva Matteo Renzi, nonostante i toni del comunicato dell’attuale premier lasciassero poco spazio ad aperture e ripensamenti.

Saranno insomma giorni di trattative e ipotesi varie. Sulla carta ci sono 4 scenari aperti ma con indici di probabilità assai diversi l’uno dall’altro.

1. L’intesa: Draghi dovrebbe tornare al Parlamento per chiedere un nuovo voto di fiducia e convincere il M5S a fare un passo indietro per restituire il suo appoggio al governo. Ipotesi questa che piacerebbe soprattutto al Pd e al Capo dello Stato. Lega e Forza Italia, tuttavia, hanno già manifestato la loro contrarietà a mantenere l’alleanza dopo quanto accaduto.

2. Le dimissioni e il Draghi bis: se invece Draghi dovesse confermare le sue dimissioni, potrebbe formarsi un governo con la stessa guida, ma senza il M5S. Tuttavia questa ipotesi è stata respinta più volte dallo stesso Draghi, che ha ribadito di non voler guidare un governo senza l’appoggio dei pentastellati.

3. Le dimissioni e il governo di transizione: a dimissioni confermate, Mattarella potrebbe decidere di assegnare il compito di formare un nuovo governo a un’altra persona. Una personalità importante, probabilmente un tecnico, in grado di guidare un governo provvisorio, evitando il voto anticipato e con il compito di far approvare la legge di Bilancio 2022. 

4. Le dimissioni e le elezioni anticipate: quella gradita sicuramente a Fratelli d’Italia, prima per consensi, sarebbero le elezioni anticipate al 25 settembre (o al 10 ottobre). Mattarella scioglierebbe le Camere, terminando l’attuale legislatura. Questo scenario sembra però essere il meno papabile, perché cadrebbe in un periodo troppo vicino alle discussioni per l’approvazione della legge di Bilancio. 

Dunque, come in una strana e poco fantasiosa telenovela, per ora c’è solo da aspettare e scoprire l’evolversi della situazione.