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LA COSCIENZA DI ZETA

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Come non devi parlare di violenza di genere

È difficile tracciare una linea temporale che segni il tuo passaggio in età adulta. Tutto d’un tratto il tuo corpo perde quei connotati d’innocenza e mentre tu cerchi di capire come sia successo, il mondo accanto a te è già pronto ad insegnarti come controllarlo e come contenerlo. Un giorno hai un nome, quello dopo hai un corpo. Ci scontriamo sin da subito con la femminilità, quel mostro che diventa il padrone di noi stesse e che ci insegna che certi limiti non devono essere valicati, perché non vorremmo mai essere additate come provocanti o volgari. Interiorizziamo un senso di pudore, un’educazione subdola, alla subordinazione da un lato e alla difesa dall’altro. Non sai ancora da chi devi proteggerti, ma sai che devi farlo; te lo ripetono e continui a ripeterlo anche tu. Un giorno rivolgi sorrisi a sconosciuti per strada, quello dopo ti senti dire: Però sei stata tu che gli hai dato confidenza. Accade e nessuno ti avvisa: il tuo corpo diventa uno scudo e le parole armi. 

Perché se si è donna, in Italia, si muore anche di linguaggio.

Oggi più che mai ci troviamo a discutere dell’importanza delle parole, come scriveva l’attivista e scrittrice Michela Murgia, in merito alla questione di genere. A seguito delle dichiarazioni del giornalista Giambruno, della premier Meloni e del successivo dibattito pubblico creatosi attorno all’ennesimo caso di strupro, sorge spontanea una domanda: sappiamo parlare di violenze di genere appropriatamente? La risposta è no.
Un esempio lampante si ritrova nella cosiddetta
vittimizzazione secondaria, il fenomeno per cui la vittima di un crimine subisce un secondo atto di violenza che la rende nuovamente vittima. Stupisce, o purtroppo no, che questo processo venga perpetuato generalmente dalle istituzioni: dalla giustizia, dalla politica e dai media. È sufficiente porre una domanda sbagliata, affiancare la vicenda a situazioni circostanziali non pertinenti e utilizzare anche solo una parola fuori posto affinché venga attuato. Ciò rende il fenomeno insidioso e difficile da estirpare dalla società, ma semplice da introiettare nella vittima. Analizziamo insieme le contingenze sulle quali normalmente si pone attenzione quando si parla di violenza di genere.

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Com’era vestita? 

Sono innumerevoli le sentenze giudiziarie di assoluzione che fanno perno sul vestiario della vittima. La provocazione del desiderio maschile viene giustificata da un abbigliamento provocante che lascia intendere una disponibilità sessuale. Oppure al contrario, l’innocenza del carnefice è dimostrata dalla poca femminilità della vittima, che, dunque, non sarebbe in grado di suscitare l’impeto sessuale. Troppo mascolina, poco avvenente, così la Corte d’Appello di Ancona assolveva nel 2019 due giovani dall’accusa. Come se ci fossero dei requisiti di bellezza anche per subire uno stupro 

Dopo quanto tempo ha denunciato?

«…di sicuro lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore…» Così Ignazio La Russa, presidente del Senato, difende il figlio accusato di stupro. Le tempistiche della denuncia sono importanti: perché mai aspettare così tanto tempo? Forse per trovare le prove per incastrare il carnefice? Forse per avere il tempo di inventare una buona storia? Perché non farlo subito? D’altronde dovremmo essere protette dalle nostre istituzioni e non dovremmo dimostrare di avere tutti i criteri per essere credibili. 

Le condizioni psico-fisiche della vittima

Le condizioni psico-fisiche alterate dall’assunzione di droghe o alcol sono spesso riportate come concause della violenza sessuale. È consuetudine lasciare spazio durante la discussione ai dettagli dell’abuso, e in queste specificazioni rientra l’incoscienza della vittima che si sottopone autonomamente all’utilizzo di sostanze psicotrope che modificano i suoi sensi e le sue percezioni di pericolo. L’attenzione viene così spostata, ancora una volta, verso aspetti marginali che non fanno altro che alimentare il processo di  responsabilizzazione della vittima. È ciò che è successo all’interno di Diario del Giorno, una rubrica del Tg4, condotta dal giornalista nonché compagno della premier, Andrea Giambruno. Il conduttore, dopo aver stigmatizzato lo stupro, ha continuato il suo discorso aggiungendo: “Se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche, perché poi il lupo lo trovi”. Meloni, dal suo canto, ne ha preso le difese ribadendo che purtroppo gli stupratori esistono e bisogna avere, dunque, gli occhi aperti e la testa sulle spalle. Perché dovremmo contestare una raccomandazione legittima che qualsiasi buon padre di famiglia avrebbe dato? Si tratta d’altronde di consigli educativi che ogni donna ha ricevuto almeno una volta e che la nostra famigliola politica continua ossequiosamente a tramandare.

Innanzitutto facciamo una breve ricapitolazione di ciò che abbiamo imparato: se subisci una violenza di genere devi essere prima di tutto credibile, e per esserlo devi rispettare certi parametri. Devi essere femminile, senza essere troppo sensuale; devi denunciare l’accaduto con celerità altrimenti lasci molti interrogativi e devi essere sobria per rimanere vigile perché il lupo è dietro l’angolo. Sono degli imperativi non scritti di cui devi essere a conoscenza. Fanno parte dell’educazione alla quale siamo indottrinate e che continuiamo a normalizzare. Impariamo a vestirci per proteggerci, per non attirare sguardi indesiderati; a tenere gli occhi bassi per non dare segno di disponibilità; a non camminare sole perché dobbiamo essere responsabili. Eppure, non basta. Perché?

Perché lo stupro e le violenze di genere non dipendono da situazioni circostanziali, dalla negligenza della vittima o dall’impulsività del carnefice. Lo stupro non è legato al sesso, all’attrazione o alla bellezza, ma a questioni di potere che mantengono la donna in una condizione subordinata di genere. È la legge del più forte che domina, come nel mondo animale e in questi termini non possiamo biasimare chi definisce lupi coloro che agiscono violenza: non sono uomini, dunque non hanno le facoltà per ricevere un’educazione. È il più debole che deve adattarsi all’ambiente e cercare di sopravvivere. Questa logica potrebbe essere accettata, se non vivessimo in un paese democratico e civile.

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Peccato che l’Italia lo sia e che tutti i cittadini, secondo l’articolo 3 della nostra Costituzione, abbiano pari dignità sociali senza distinzione di sesso. Pertanto quei lupi sono semplicemente uomini dotati di razionalità e intelletto che possono e devono essere educati, ma non per quella politica che li reputa non senzienti e che propone la castrazione chimica come soluzione. Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti hanno la responsabilità di scardinare il sistema patriarcale che perpetua un potere che, spesso, si traduce in violenze di genere. Perché lo stupro è solo la punta di un iceberg, dove l’abuso assume la sua massima forma. Ma sotto il livello dell’acqua ci sono i commenti sessisti, l’oggettificazione sessuale, la banalizzazione del consenso e del dissenso e la più subdola delle educazioni. Voi uomini non siete stanchi di essere paragonati ad animali che non riescono a sopprimere i propri istinti sessuali? Non ne avete abbastanza di una società che raccomanda alle donne di non abbassare la guardia perché il pericolo è ovunque e porta il vostro nome? 

Vogliamo davvero tramandare questa narrazione di odio e di terrore?

Le riforme culturali non avvengono in un giorno e non seguono degli step prefissati, ma per ora possiamo partire dal linguaggio e possiamo imparare, tutti e tutte, a scegliere le parole adatte perché noi donne siamo stanche di proteggerci, di essere vittime e, soprattutto, di esserlo per due volte.