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Cos’è l’inquinamento digitale e come ridurlo

Immagina: hai 22 anni, è il 2023, stai studiando e decidi di concederti del tempo, un’ora circa, per lasciar riposare la tua povera materia grigia in crisi per gli argomenti del prossimo esame. Decidi quindi di stenderti sul letto, accendere il cellulare, aprire Instagram e riposarti. Ora, poniamo anche il caso che tu sia una persona che cerca di avere un’impronta ambientale minima, stando attento alla provenienza di ciò che mangi, selezionando quando viaggi l’opzione per la compensazione di CO2, pubblicando post a sostegno dei diritti dei lavoratori contro lo sfruttamento in qualsiasi forma ed ambiente.

Cosa penseresti se ti dicessero che ogni singolo minuto di quell’ora di pausa spesa su Instagram ha prodotto CO2?

Ogni volta che mandiamo una mail produciamo dai 4 ai 50 grammi di CO2 (circa 340 mila le mail inviate al giorno in un anno) e un solo server può emettere annualmente da 1 a 5 tonnellate di anidride carbonica. Se Internet fosse una nazione le stime fatte dal Global Carbon Project la classificherebbero come 4ª al mondo per emissioni. Per il sostentamento dell’information Technology non solo produciamo il 3,9% della CO2 globale (il traffico aereo ne produce il 2%), ma mettiamo anche a rischio la vita e i diritti di lavoratori e bambini, sfruttati in Paesi lontani per ottenere le risorse necessarie a sostenere questo mercato.

Quanto riassunto finora è uno degli argomenti più controversi da affrontare in questi anni: l’inquinamento digitale (digital pollution), una delle facce oscure della globalizzazione informatica che ci offre comfort e infinite occasioni dietro ogni click.

Ma cos’è l’inquinamento digitale? Ce ne dà una risposta Karmametrix, che offre un servizio di controllo della sostenibilità ambientale tramite un algoritmo basato su intelligenza artificiale. Capace di decifrare e quantificare le emissioni prodotte da un sito, Karmametrix collabora a livello nazionale ed internazionale con numerose aziende. Nel curriculum conta più di 200 mila siti esaminati e tra questi si contano quello della società di connessioni americana Verizon, quello del brand d’alta moda Valentino, del gruppo assicurativo UnipolSai, del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, per citarne alcuni.

Karmametrix, che promuove l’attivismo ad un uso ottimizzato del web, descrive l’inquinamento digitale come «l’insieme dei danni ambientali causati dall’utilizzo e dal consumo energetico delle tecnologie digitali, come gli smartphone, i computer, i server e le infrastrutture di rete».

All’interno della definizione “consumo energetico” non si trovano solo le linee elettriche che portano energia ai nostri devices ma anche quelle che alimentano i loro sistemi di raffreddamento. Quest’ultima spesa a livello di energia emissioni e costi, riguarda in particolar modo le grandi aziende, come Google e Amazon, e i loro enormi data center, in cui vengono immagazzinati ed elaborati i dati.

Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), i consumi stimati per i data center sono circa l’1% della richiesta di energia mondiale. Dati che però non tengono conto del mining di criptovalute -come sottolineato dagli analisti di Openpolis- settore che abbiamo visto prendere una buona fetta di mercato dalla pandemia fino agli inizi del 2023, con ancora oggi una notevole base di attività  (un bitcoin vale ancora poco meno di 33 mila euro, alle 21:07 del 25/10/2023, n.d.a.), ma nettamente inferiore con il valore di 61 mila euro a novembre 2021.

E quando i nostri dispositivi finiscono la loro vita?

Il problema dello smaltimento dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) è un argomento cruciale quando si parla di inquinamento digitale, in quanto, prendendo in esame un semplice cellulare, ci rendiamo conto di quanto questo sia uno scrigno del tesoro di metalli rari preziosi come rame, oro, argento, palladio, ma anche di metalli pesanti (e tossici) come il mercurio, utilizzato negli schermi a cristalli liquidi, e il nickel, usato nelle saldature

È stato stimato dal CDCRAEE nel rapporto annuale 2022, che, durante l’anno esaminato, in Italia sono state raccolte più di 360 mila tonnellate di apparecchi elettrici ed elettronici rotti o inutilizzati, senza contare i dispositivi dispersi o non conferiti secondo le vie di smaltimento ufficiali.

Uno degli errori più comuni è quello di gettare nell’indifferenziata il componente rotto o l’intero apparecchio, aumentando il rischio di inquinamento e minimizzando la possibilità di recupero dei metalli preziosi all’interno dell’oggetto. La giusta via per disporre dei RAEE è portandoli nelle isole ecologiche o nei centri di raccolta comunali, o nei casi più difficili, affidarsi al ritiro a domicilio.

Sappiamo tutti molto bene che, sebbene queste siano le vie migliori e più dirette allo smaltimento, il trattamento dei rifiuti in Italia è sempre stato un tasto dolente soprattutto nel Mezzogiorno Italiano, per questo un secondo metodo valido per smaltire i vecchi elettrodomestici è affidarsi a negozi di elettronica ed elettrodomestici che sono obbligati a ritirare i RAEE gratuitamente e a smaltirli (purché le dimensioni del negozio superino i 400 metri quadrati).

Il centro di vendita può opporsi al ritiro solamente nei casi in cui il dispositivo sia privo delle sue componenti essenziali oppure rappresenti un rischio per la salute e la sicurezza del personale. Il mancato smaltimento e l’abbandono sono sanzionati seguendo il decreto del Ministero dell’Ambiente (DM n. 121/2016) con una multa dai 300 ai 3000 € (importo raddoppiato nel caso di rifiuti pericolosi).

Ma perché lo smaltimento e il recupero dei materiali è così importante?

Nella storia dell’evoluzione tecnologica i materiali utilizzati e le loro caratteristiche hanno sempre svolto un ruolo da protagonista e in più casi la mancanza di questi ha generato delle gravi perturbazioni economiche a livello nazionale e internazionale. L’ultima grande crisi di materiali tecnologici si è avuta all’inizio del 2020, contestualmente all’inizio della pandemia di COVID-19.

Se ne ricorderà bene chi al tempo ha cercato di comprare una Playstation 5: disponibile alla vendita dal novembre 2020, ha visto l’esaurimento delle scorte disponibili in pochissimo tempo senza poter soddisfare le richieste di tutti coloro che avrebbero voluto la nuova console in casa. Questa penuria era dovuta proprio alla crisi dei semiconduttori: materiali come silicio e germanio, che sono alla base di tutti i principali dispositivi elettronici e microelettronici.

La crisi trova la sua causa principale nella pandemia di COVID-19 che ha creato una situazione in cui, come ben sappiamo, ha bloccato globalmente non solo produzione e vendite, ma anche tutte le persone nelle loro abitazioni, che hanno cercato in ogni modo di tenersi in contatto con amici e parenti aggiornando i propri dispositivi. Prendiamo come esempio le vendite di computer negli ultimi tre mesi del 2020 che sono cresciute del 26,1% rispetto l’anno precedente.

Tuttavia la pandemia non è stata l’unica causa: lo svilupparsi delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, la guerra in Ucraina, il mining di criptovalute e la siccità di Taiwan, uno dei Paesi leader nella produzione di semiconduttori, che ha privato la produzione dell’acqua ultrapura necessaria alla pulizia delle fabbriche e dei “wafer”(sottile fetta di materiale semiconduttore) hanno reso molto più complesso accontentare le richieste degli utenti.

I problemi dovuti a questa mancanza continuano a ripercuotersi tutt’ora, tanto che a luglio 2023 il Parlamento europeo ha approvato, l’European Chips Act che dovrebbe sostenere l’aumento della produzione di semiconduttori nel territorio europeo. Questa legge è inoltre supportata da un secondo progetto di legge chiamato impresa comune Chips, utile a rafforzare l’economia e la produzione industriale europea dei semiconduttori, in modo da promuovere un ruolo dell’UE in prima fila in questo campo.

Se non vi bastassero le possibili considerazioni a livello economico, i mancati conferimenti volontari o involontari dei materiali agli impianti di smaltimento, e i possibili interessi legati a un monopolio del mercato da parte delle grandi super potenze, uno dei casi di privazione dei diritti umani e sfruttamento più gravi al mondo per continuità e efferatezza riguarda proprio i semiconduttori e la loro produzione. Avviene tuttavia lontano dai nostri occhi e dai canali canonici d’informazione, sebbene perduri ormai da più di vent’anni.

Ci troviamo nella Repubblica Democratica del Congo e in Ruanda dove viene estratto il columbite-tantalite, abbreviato in “coltan”, questo minerale una volta estratto fornisce due minerali molto preziosi: il tantalio, usato sottoforma di polvere metallica per la produzione di semiconduttori, e il niobio, usato nell’industria metallurgica. Il tantalio in particolare è molto redditizio, avendo un valore di mercato di 510 dollari al chilogrammo.

 

Sebbene i più grandi giacimenti minerari di coltan si trovino in Australia, Nigeria e Brasile con tonnellate annuali prodotte ben più alte delle 50 tonnellate del Congo, quest’ultimo è il caso che ha avuto più risonanza mediatica nel tempo per via delle accuse mosse dall’ONU nel 2002 contro le compagnie impegnate nello sfruttamento delle miniere congolesi di finanziare indirettamente la lotta fra guerriglieri e gruppi para-militari per il controllo delle zone, limitate, d’estrazione per cui vengono usati bambini (i buchi d’estrazione sono molto piccoli e causano una mortalità di due bambini ogni estrazione) e adulti. Le zone d’estrazione trovano interesse anche nel commercio più classico di diamanti, smeraldi, uranio, oro e altri metalli preziosi.

Cosa dovremmo fare?

La risposta che possiamo darci è di stare quanto più possibile attenti alle nostre abitudini digitali e cercare di essere sostenibili per fare un favore all’ambiente ed a noi stessi. Più praticamente si tratta di: produrre contenuto digitale il più breve e coinciso possibile seguendo uno progettazione, sia di un sito web che di una mail, nel modo più sostenibile, ricordarsi di seguire una via di smaltimento adeguata e rispettosa dei materiali e del lavoro che viene fatto per recuperare anche una minima parte degli scarti.

Infine, la via più virtuosa è quella di mantenere l’approccio ed una mentalità che rispecchino i valori di un mondo più pulito, sostenendo la transizione ecologica e l’uso di fonti rinnovabili. Accertarsi della provenienza di ciò che si mangia, divulgare contenuti di sensibilizzazione sui diritti dei lavoratori e la libertà d’espressione e, perché no, selezionare l’opzione di compensazione della CO2 quando si viaggia, sono già degli ottimi inizi.