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LA COSCIENZA DI ZETA

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Cronaca di un giorno di ordinaria follia Mondiale

Una delle poche tradizioni che ancora porto dietro, in questa fase della vita tra i venti e i trent’anni in cui ogni accenno di stabilità compare e svanisce con la stessa inesorabile rapidità, è quella di guardare le partite di calcio assieme a mio padre ogni volta che mi è possibile.

Da quando vivo da solo ed in un’altra città le occasioni per farlo si sono sensibilmente ridotte, ma i posti sul divano sono sempre quelli, così come la dinamica dei nostri dialoghi, caratterizzata da due background molto diversi.
La mia cultura calcistica è costruita sulla carta, guardando un buon numero di partite e leggendo altrettante analisi tattiche, cercando di cogliere le varie sfumature nell’utilizzo di tempi e spazi di gioco da parte di allenatori e giocatori, o riflettendo su quali trigger psicologici possano portare una squadra a sovvertire l’esito di una partita che sembra già decisa.
Lui, dal canto suo, vanta una ventennale esperienza di campo e spogliatoio in serie minori, testimoniata dagli articoli di giornali locali incorniciati qua e là per casa, che lo descrivono quasi sempre come bomber, prima che questa parola venisse svuotata di qualsiasi credibilità da pagine social e BoboTv varie. Così, ad esempio, io intervengo per spiegargli da dove venga fuori quella mezzala che sembra calamitare ogni pallone che gli capiti vicino, mentre lui sa spiegarmi come fosse evidente che il terzino non avrebbe mai potuto anticipare l’attaccante che stava marcando, posizionato così male con il corpo.

Ed è stato necessario rientrare in queste dinamiche, su quel divano di casa dei miei genitori, per riuscire finalmente a godermi appieno lo spettacolo del mondiale di Qatar 2022 ad una settimana dalla sua conclusione. Dall’inizio della manifestazione, niente era stato in grado di togliermi di dosso quella patina di disagio causata da tutti i retroscena tossici che hanno accompagnato questo Mondiale. Un paese ospitante che nega su larga scala i più basilari diritti umani, e che per costruire stadi ed infrastrutture sfrutta decine di migliaia di lavoratori migranti, detenuti in condizioni paragonabili alla schiavitù e costretti a lavorare ai limiti della sopravvivenza, se non oltre: secondo l’inchiesta-shock del Guardian, le vittime sarebbero oltre 6500.

Certo, la straordinarietà della manifestazione e la mia viscerale passione per lo sport mi hanno reso sostanzialmente impossibile boicottarla, ma in me permaneva il perenne senso di stare guardando qualcosa di sbagliato. Come una Pietà di Michelangelo costruita su dei corpi sventrati, o un Van Gogh imbrattato del sangue dello sfruttamento e della repressione violenta.

Poi, però, sono arrivati i quarti di finale. Nonostante nel frattempo, tramite le parole del suo AD Nasser Fahad Al Khater, il comitato organizzatore si impegnasse a rispondere in maniera piccata ed infastidita alle domande sull’ennesima morte bianca, quello che era probabilmente il suo piano sin dall’inizio si è compiuto, almeno nella mia esperienza, in una sola giornata: il 9 dicembre.
In un venerdì di ferie come un altro, la FIFA mi ha inghiottito finalmente in quella che probabilmente dall’inizio ha architettato con cura come situazione ideale: quella in cui lo spettacolo tecnico del campo e quello emotivo delle mille sottotrame che solo una competizione del genere riesce a portarsi dietro è stato di livello talmente alto da sovrastare qualsiasi retropensiero, qualsiasi contestazione, qualsiasi dilemma morale.


A metà pomeriggio il sipario si è aperto sulla sfida tra la Croazia – una squadra scampata a fatica dalla tagliola dei giorni, con una rosa sinistramente simile a quella che già quattro anni fa era considerata a fine ciclo, ma che comunque chiuse seconda in Russia – ed il Brasile di Tite.
I verdeoro, al contrario, arrivavano a questa partita da favoriti per la vittoria finale, sulle ali di un Fùtbol Bailado (non solo metaforicamente) spettacolare e scintillante, fatto di individualità tecnicamente fuori scala anche per una Coppa del Mondo. Tra un gol da videogame e l’altro, i brasiliani sembravano divertire e divertirsi, trascinati da quella mistica indescrivibile che lega il loro popolo al calcio in maniera talmente viscerale da diventare quasi inquietante.
E invece, ancora una volta nell’ultimo ventennio, la giostra si è fermata prima del previsto.
Gran parte del merito, innegabilmente, va alla preparazione della partita di Zlatko Dalić: un 4-3-3 compatto che è sceso in campo col preciso intento di intasare gli spazi nell’ultimo terzo di campo, rompendo sistematicamente ogni tentativo di fraseggio nello stretto del Brasile. Seppur in maniera meno appariscente, anche i croati hanno fatto affidamento sulle loro individualità migliori.
Un maestro d’orchestra come Luka Modrić, che a 37 anni sembra non avere intenzione di smettere di migliorare; Marcelo Brozović, motore infaticabile che dopo aver infranto il record della storia dei Mondiali per chilometri percorsi contro il Giappone (16,7) si è quasi ripetuto, coprendone 15,7 per asfissiare ogni tentativo di costruzione degli avversari; il mascherato Joŝko Gvardiol, confermatosi miglior difensore della competizione con una prova ai limiti della perfezione a neanche ventun’anni.

Così, il Brasile è finito con tutte le scarpe nella trappola architettata dai balcanici, capaci di trascinare la partita ai supplementari con la freddezza della grande squadra. E con la resilienza – qualcuno mi fulmini la prossima volta che mi dovessi azzardare ad usare questa parola – necessaria per rispondere ad un potenziale colpo del K.O.: quello arrivato al centoseiesimo minuto dall’uomo più atteso, Neymar Jr. Dopo una partita in ombra, il talento del PSG ha fatto quello che da sempre sa fare meglio: dare l’impressione di poter controllare a suo piacimento il tempo e lo spazio attorno a sé, trovando uno dei rarissimi triangoli vincenti con Paquetà al limite dell’area, e mettendo fuori causa due difensori e il portiere praticamente senza toccare il pallone, se non per scagliarlo sotto la traversa. Una rete carica di simbolismo, che sembrava poter invertire la narrazione di un Brasile troppo fragile di fronte alle prime difficoltà, consacrando sull’altare più importante del calcio mondiale una generazione d’oro finora segnata da troppe cocenti delusioni.

Invece, mentre sugli spalti si scatenava il carnevale carioca, a tradire i sudamericani è stata l’antitesi della loro filosofia di gioco, personificata in Bruno Petković: un centravanti grosso, lento e scoordinato, sembrato un pesce fuor d’acqua finché, a tre minuti dal termine, non ha sfruttato il suo istinto per staccarsi dalla linea di difesa, ricevere da Orŝić sugli sviluppi di un contropiede e depositare la palla alle spalle di Alisson grazie alla sfortunata deviazione di Marquinhos.

A quel punto, i tiri di rigore sono stati solo la naturale conclusione dell’ennesima serata maledetta della Seleção. Merito della freddezza dei croati sul dischetto, e di Dominik Livaković capace di confermare la sua prestazione da migliore in campo (21 parate totali) ipnotizzando prima il giovanissimo Rodrygo e poi proprio Marquinhos, reo di aver infranto una delle più crudeli leggi non scritte di questo sport: se baci il pallone prima di calciarlo, tendenzialmente non farà quello che desideri. In questo caso specifico, andrà ad infrangersi contro la base del palo, portandosi dietro le speranze di gloria di 214 milioni di brasiliani.


Se Croazia-Brasile è comunque finita tra abbracci e strette di mano (commovente vedere Modrić consolare il suo compagno Rodrygo al centro del campo; ancor di più vedere Leo, il figlio di Ivan Periŝić, correre ad abbracciare il suo idolo Neymar, in lacrime), non si può dire altrettanto del secondo quarto di finale, Paesi Bassi-Argentina.

Una partita tesissima, carica di nervosismo (i 17 cartellini gialli sventolati dallo spagnolo Antonio Mateu sono un record storico per la competizione), in cui è successo praticamente di tutto. Un saliscendi emotivo che ha illuso e distrutto a più riprese l’una e l’altra tifoseria, ma che ha regalato uno spettacolo da ricordare agli spettatori neutrali, pur portandosi dietro strascichi tossici ben oltre il fischio finale.

Riavvolgiamo il nastro: anche in questo caso, la nazionale sudamericana partiva da grande favorita. Lionel Messi è sembrato sin dal primo minuto in Qatar un uomo in missione, deciso a portare a Rosario quella Coppa tanto agognata all’ultima occasione della carriera. La Scaloneta, come è stata definita la macchina argentina capace di centrare 36 partite senza sconfitte alle porte di questo Mondiale, ha reagito bene alla sconfitta-shock all’esordio contro l’Arabia Saudita, superando Messico e Polonia nel girone e l’Australia negli ottavi, grazie anche a due titolari inaspettati come Enzo Fernández e Julián Álvarez.
Dall’altra parte, l’Olanda si è presentata a questa manifestazione rinnegando in maniera piuttosto forte la storica tradizione da Arancia Meccanica che la accompagna dai tempi di Cruyff: una squadra ordinata, quadrata, stretta attorno alla figura salvifica di Louis Van Gaal. Un allenatore istrionico, di fortissima personalità, capace tra le altre cose di ridare vita ad un opaco Memphis Depay e di lasciare fuori due nomi pesanti come Matthijs de Ligt e Stefan De Vrij per la sfida più importante della sua terza campagna in Oranje. Ma, soprattutto, pervaso da un odio viscerale e quasi insensato verso gli argentini, che ha origini remotissime.
In conferenza stampa, il CT olandese aveva detto di avere un piano per limitare Messi. C’è riuscito per 34 minuti di partita bloccata, prima che la pulce tirasse fuori uno di quei numeri che sembra poter fare solo lui: un filtrante a testa bassa, senza guardare il destinatario del passaggio, che taglia fuori in un lampo tutti i difendenti. A quel punto, per Nahuel Molina, in area di rigore, è solo questione di sangue freddo. Controllo di piatto, tocco di esterno per battere l’uscita di Noppert e far impazzire un popolo intero (oltre al solito stucchevole Lele Adani, al microfono per la Rai).

L’Olanda non si scompone e riprende a giocare una partita ordinata, riuscendo ad anticipare con una certa continuità gli attaccanti dell’Albiceleste. A venti dal novantesimo, però, è Denzel Dumfries a provocare il più classico dei rigorini: appena dentro il lato corto dell’area, l’esterno dell’Inter è ingenuo a lasciare lì il piede sul cambio di direzione di Acuña. C’è il contatto, c’è il penalty, c’è la trasformazione chirurgica di Messi che fa 10 gol al Mondiale (eguagliato Batistuta) e sembra mettere in ghiaccio la qualificazione.
E invece, Van Gaal trova l’asso nella manica: butta dentro una torre come Wout Weghorst, affiancandola ad un altra come Luuk De Jong, entrato al 64′. Gli olandesi iniziano così a bombardare di lanci lunghi e cross dalla trequarti l’area di rigore argentina, e la tattica porta i suoi frutti: i difensori di Scaloni perdono sistematicamente i duelli individuali ed arrivano sempre per tardi sulle seconde palle.
È proprio Weghorst ad accorciare attaccando benissimo il primo palo sul cross tagliato di Berghuis. A questo punto la partita si scalda, diventa sporca e cattiva, e Leandro Paredes accende definitivamente la miccia calciando un pallone contro la panchina avversaria dopo un brutto intervento a centrocampo. Il rodeo che si scatena rientra senza particolari conseguenze, ma oramai i nervi sono saltati.

In questa situazione nevrastenica, però, si compie uno dei momenti più memorabili di questo mondiale: a tempo praticamente scaduto (oltre il decimo ed ultimo minuto di recupero), l’Olanda ottiene una punizione dal limite per un fallo ingenuo di German Pezzella, e l’idea di Teun Koopmeiners è tanto folle quanto efficace. Invece di calciare verso la porta, il centrocampista dell’Atalanta innesca uno schema: passaggio al centro dell’area proprio per Weghorst che fa da boa, controlla di destro e gira in rete di sinistro per un pareggio che solo venti minuti prima sembrava un miraggio.

I tempi supplementari servono solo a caricare le batterie della tensione, che diventa quasi insostenibile persino da dietro al televisore: l’Argentina prova a sbloccarla prima con un rigore in movimento di Lautaro Martinez, poi con una bordata a tempo scaduto di Enzo Fernandez che però trova solo la base del palo.
Decidono ancora i rigori, dove in un mare di provocazioni e nervosismo l’eroe nazionale è Emiliano Martinez, che intercetta le conclusioni di Van Dijk e Berghuis; l’Olanda sfiora l’ennesima rimonta dopo l’errore dal dischetto di Fernandez, ma è proprio Lautaro, scelto come quinto sul dischetto nonostante una campagna Mondiale in cui gli è fondamentalmente andato tutto storto, a centrare l’incrocio e spedire i suoi in semifinale.

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Dopo il triplice fischio, comunque, le polemiche non accennano a placarsi: Dumfries viene espulso per doppia ammonizione praticamente a partita finita, gli argentini esultano platealmente davanti agli avversari, e Messi rincara la dose sia in campo (sfiorando la rissa con lo stesso Van Gaal, evitata solo dall’intervento di – incredibile ma vero – Edgar Davids), che ai microfoni, scagliandosi prima contro l’arbitro e poi col malcapitato Weghorst, che torna a casa col nuovo – poco simpatico – soprannome di bobo.

Lo stesso Van Gaal, nel post-partita, annuncia le sue dimissioni chiudendo la carriera da CT con un record ai limiti dell’inverosimile al Mondiale: 10 partite giocate, nessuna persa all’interno di tempi regolamentari e supplementari, due eliminazioni incassate ai rigori per mano dell’Argentina. Forse, a pensarci bene, i suoi motivi per odiare i sudamericani potrebbe averli.


Spengo la tv. Mio padre già dorme, piegato sul suo lato del divano. Il mio corpo è ancora elettrico, come se quelle sei ore di battaglia continua le abbia vissute in prima persona, sul prato, e non comodamente seduto. Ripenso a tutto il nero di Qatar 2022, e quasi provo colpa del sentirmi così appagato e soddisfatto di quello a cui ho appena assistito.
Eppure, come sempre e per certi versi inesorabilmente, bastano solo un pallone, una tv, il divano e mio padre.