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Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo

Sarà capitato a molti di leggere la famosa citazione: «La bellezza salverà il mondo».

Ma chi la pronunciò per primo?

Fu Fëdor Michàjlovič Dostoevskij, in uno dei massimi capolavori della letteratura russa (e mondiale), un romanzo bellissimo, sconvolgente, un grido disperato all’umanità: L’idiota, pubblicato per la prima volta nel 1869.

Più che Dostoevskij stesso, fu il protagonista del romanzo, il Principe Lev Nikolaevič Myškin, riconosciuto come il Cristo moderno del diciannovesimo secolo: è venuto al mondo per non salvare nessuno; un ragazzo senza radici ma d’importante stirpe. È la più feroce critica ad una società dedita al potere, al narcisismo.

Myškin, l’ingenuo, l’idiota, il malato (di epilessia, malattia all’epoca non diagnosticata e della quale era afflitto anche lo stesso Dostoevskij, come in una specie di parallelismo, ndr). Egli è un personaggio tanto complesso da non ricevere giustizia neanche dal libro stesso, confinato in un’ambiguità che lo fa oscillare tra l’eccessiva bontà del suo animo e la quasi demenza. In realtà, il Principe Myškin, se da un lato sogna la pace e la felicità di tutti gli uomini, estraneo alla logica del potere, dall’altra mostra anche di essere mancante di empatia, un conglomerato di tranquillità e perspicacia, piuttosto che di umiltà. Molto schietto, cerca di diventare “normale” tacendo in molteplici situazioni. La legge in questo mondo dostoevskiano è di essere buffi, perché solo i ridicoli hanno una vera espressione, quella della “materia viva”, al contrario dei normali che sono impersonali, asettici.

Il treno Varsavia-Pietroburgo scaraventa un inconsapevole lettore–attore, che si ritrova a reggere la scarna scena, privo di quel sottile meccanismo che si chiama finzione. Due co-protagonisti sul vagone: Myškin, e la sua metà, il suo doppio, l’opposto, Parfen Rogožin. Cos’è questa doppiezza? Non è altro che una dispersione dell’essere nel mondo. Il secondo doppio, come il primo, resterà sempre congeniale e morboso alla propria metà, in un costante avvicendarsi di incontri-scontri, frasi non dette e divari sentimentali. Entrambi sono la stessa persona, in letteratura il doppio di uno equivale ad una persona nella sua interezza, abbracciandone le sfaccettature e le complessità.

Rogožin è descritto come un essere meschino, un assassino, benché in realtà fosse un uomo estremamente solo e completamente infelice. Egli tenta di ricongiungersi all’avversario tramite il noto omicidio-suicidio (fallito) nei confronti del Principe: Rogožin desidera Myškin, che viceversa desidera Rogožin, in una fatale attrazione. Tra i due, la principale diatriba risiede nell’amore che entrambi hanno per la bellissima, elegantissima ed affascinante Nastas’ja Filìppovna, il cui delicato volto appare spesso trasfigurato dalla sua eccentrica follia.

Nel mentre il Principe Myškin ha un interesse per la splendida Aglaja Epàncina, la cui frivola altezzosità è spesso oggetto di scherno da parte della madre, Lizaveta. Aglaja è forse l’unica a comprendere la vera duplice natura del Principe e si dichiara innamorata di questi, pur amando nel contempo Gavrila. Un trio amoroso, una sfilza di aneddoti che coinvolgeranno anche Rogožin , il quale è follemente (alla lettera) innamorato di Nastas’ja e se non sarà ricambiato con altro amore, lo otterrà con l’aggressività, l’umiliazione e l’odio. Questo marasma di persone spiralizza attorno al Principe, nella continua ricerca l’uno dell’altro, dove però alla fine nessuno sceglie nessuno, nessuno sembra realmente interessato a chi ha di fronte.

Ogni personaggio è minuziosamente descritto con le sue sconcezze psicologiche, nessuno sembra quel che è. Ognuno tallona l’altro incarnando un paradosso, spinti da un disperato bisogno di aprire il loro animo. Dostoevskij in questo modo mistifica la realtà, ponendo davanti agli occhi del lettore una frammentata rappresentazione dell’Io. Infatti, ciò che interessa allo scrittore è il vivere umano; le mille sfumature del vissuto, i tormenti, le ansie. Ed è per questo che per mostrarlo nella sua interezza egli sceglie personaggi anomali, che cercano negli altri la verifica del loro essere: idioti, assassini, folli, perché solo in essi è visibile il lato interiore oscuro, nascosto, dell’essere.

Questa è un’opera-sogno, la narrazione dostoevskiana presenta una singolare lacuna verso il tempo, non se ne ha percezione, non esiste, si tratta di una catasta di avvenimenti che avvengono in “un” giorno qualunque, per poi saltare a piè pari interi periodi di settimane o addirittura mesi.

Dostoevskij non si dichiara mai psicologo, nemmeno nei taccuini più intimi o nelle sue lettere private (dove, ad esempio, confessa la difficoltà a rappresentare un uomo buono in tutto), piuttosto si dichiara «conoscitore di tutti i bagliori infernali dell’anima umana». Egli attingeva dalla vita che gli si propinava, prendendovi spunto per costruire i suoi “eroi”, su una base di verosimiglianza.

La domanda che sorge spontanea è: perché il Principe è un idiota?Perché egli professa un amore univoco e spesso non corrisposto, perché ha pietà anche per chi lo deride, che fa della debolezza la sua forza, perché la sua esistenza è una costante provocazione al mondo circostante, perché è raro, o forse unico. Perché la bellezza che salverà il mondo non è altro che l’uomo veramente buono, è la bellezza del Bene, che nulla ha a che vedere con la canonica bellezza estetica, e che questa volta però non lo salverà dalla follia.