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Il cuore dei Golden State Warriors

È il 2019, i Golden State Warriors stanno giocando le Finals contro i Toronto Raptors e Kevin Durant si rompe il tendine d’ Achille in gara-5. Nella successiva, Klay Thompson si rompe il crociato, e inevitabilmente la franchigia della baia perderà quella serie. In estate, KD andrà ai Brooklyn Nets, Andre Inguodala a Memphis e quella squadra imbattibile diventerà improvvisamente vulnerabile. In seguito al grave infortunio di Steph Curry, gli Warriors termineranno addirittura la stagione 2019/20 col peggior record della lega (15-50).

Flash forward al 2022: Klay Thompson è tornato dopo due gravi infortuni – vicino al rientro dall’infortunio già citato, si romperà anche lui il tendine d’achille -, Kevin Durant e i Nets sono stati spazzati via dai Boston Celtics, finalisti, e Curry è il trascinatore della franchigia. Iguodala è tornato per un ultimo tango. Ritorna Gara 6 delle Finals, la maledetta gara sei, ma questa volta recita 103-93 per Golden State; 4-2 nella serie contro Boston e quarto titolo NBA negli ultimi otto anni.

La vittoria del team di Steve Kerr è un concentrato puro di passione, determinazione, umiltà e fiducia, messo in piedi da un gruppo capace di trasmettere la mentalità da Strength in Numbers anche ai più giovani. Proprio da loro la franchigia è ripartita: una volta tornati in salute i tre tenori, c’era bisogno di affiancargli un supporting cast di tutto rispetto. E non è un caso se ora ci ritroviamo a parlare del talento di Jordan Poole, diventato una sorta di terzo Splash Brother, del coraggio di Gary Payton II, il figlio d’arte che non si è arreso ai primi errori commessi, della consapevolezza di Andrew Wiggins, al primo titolo della sua carriera dopo otto anni da promessa incompiuta.

Giocatori sbocciati grazie ai veterani che, dopo aver sistemato i vari acciacchi, hanno ricordato a tutte le 29 franchigie come si giochi a pallacanestro. Draymond Green, astuto e sbruffone giocatore-allenatore; l’alieno dal cuore gigante Stephen Curry, MVP delle finals; e soprattutto Klay Thompson, che dopo quasi tre anni è tornato a pennellare come un moderno Caravaggio cestistico.

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Quella di quest’anno è la vittoria di un gruppo che è rinato dalle proprie ceneri, schiaffeggiando sciocchi pronostici che davano la franchigia sette volte campione come finita. In questi Playoffs non hanno mai avuto bisogno di arrivare a gara-7, battendo facilmente i Denver Nuggets dell’MVP Jokic e le due squadre del futuro: Memphis Grizzlies e Dallas Mavericks.

Boston è stata ottima, ha lottato fino a quando il gioco era giocabile, ed ha dimostrato di poter sperare in un futuro solare. Marcus Smart e Robert Williams III hanno sputato sangue cercando di fermare l’attacco avversario, che però in diversi frangenti ha semplicemente straripato. Jayson Tatum ha dato il massimo, alle prime Finals della sua carriera, vincendo gara-3 praticamente in autonomia, ma arrivando stremato alla linea del traguardo. Ime Udoka non ha commesso errori grossolani nella gestione di questa serie, nonostante in tanti abbiano criticato la sua difesa iper-aggressiva su Curry. Semplicemente, Boston ha perso davanti alla perfezione dei rivali, perché contro questa Golden State nessuno poteva vincere.

Questa stagione ha regalato emozioni indescrivibili, ed ha attestato ancora una volta che in NBA spendere di più non significa vincere di più, come dimostrato in primis la disfatta delle losangeline, il tonfo dei Nets e il gioco meraviglioso dei Miami Heat. Ci troviamo a cavallo tra due generazioni di fenomeni, come accadde a fine millennio, e questi sono i momenti in cui le storie con la palla a spicchi diventano ancora più belle.

La verità è una: che la pallacanestro è un gioco semplice, in cui 10 giocatori rincorrono una palla per 48 minuti, e alla fine vincono i Golden State Warriors.