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Sul precariato giovanile

Che cosa significa precarietà?

“Con quel desolato sentimento di precarietà lasciava invano passare i suoi tristi giorni”. È una citazione del romanzo “I vecchi e i giovani” di Pirandello con cui la Treccani fornisce un esempio contestualizzato del sostantivo in questione.
La radice del termine latino precarius “tenuto con preghiere, concesso per grazia” è prex ovvero “preghiera”. L’enciclopedia definisce quindi la precarietà come la “condizione di ciò che può subire un peggioramento imminente” o, ancora, come la “condizione di ciò che non dà garanzie di continuità”.
Già nel 1999, Pierre Bourdieu, uno dei più importanti sociologi dello scorso secolo, nel saggio “Controfuochi” formulava in maniera abbastanza lapidaria che “oggi la precarietà è dappertutto”, poiché ci si è sottomessi a crederla come condizione inevitabile e quindi ormai ineluttabile del nostro assetto societario. Descriveva quindi la precarietà lavorativa come “stato di insicurezza generalizzato e permanente” (Bourdieu 1999, p. 98).

Ma questa precarietà, chi affligge? E soprattutto, da dove ha origine?

Tre anni fa, Maurizio Ferrera, uno dei più importanti sociologi italiani, ne “La società del Quinto Stato” sosteneva che la precarietà: 

“non riflette necessariamente differenziali di istruzione. Essendo prevalentemente giovani, molti precari hanno infatti buone credenziali educative. Il dualismo (fra precarietà e buone credenziali educative, n.d.r.) ha piuttosto radici istituzionali, è il portato di assetti regolativi stratificati nel tempo, compresi quelli che riguardano le tutele e i diritti sociali” (Ferrera 2019, p. 11).

Il fenomeno è quindi adducibile a ragioni macrosociali che scaturiscono dalla combinazione di fattori economici e inconsistenze politiche. Si pensi ad esempio alla digitalizzazione dei processi produttivi, all’automazione: è di cruciale importanza e potrebbe migliorare la vita di tutti, ma poiché non gli corrisponde una degna regolamentazione spesso fa i soli interessi di chi è già nella posizione di trarne vantaggio, a discapito dei lavoratori comuni.
Ma per capire in che modo la precarietà è diventata la popstar che ben conosciamo oggi (talmente famosa che l’INPS le ha dedicato un apposito osservatorio) bisogna considerare la proliferazione, negli ultimi 25 anni, di quelle forme contrattuali atipiche (qui le abbiamo introdotte brevemente) che hanno esacerbato l’instabilità delle componenti più fragili della classe lavoratrice: in primo luogo i giovani.

https://newzpaper.org/2022/12/06/sulla-necessarieta-del-salario-minimo/

Agli sgoccioli del secolo scorso infatti, la richiesta che economia e tecnologia hanno rivolto al mercato del lavoro è stata una sola: più flessibilità! Un concetto dietro il quale sono state mascherate tutte le forme contrattuali atipiche. Di queste, la principale è il contratto a termine che, nelle sue polimorfe varianti, rimane ancora oggi la modalità più diffusa per l’accesso al lavoro: sia che si tratti di una necessità fiscale – se così la si vuol chiamare – per le piccole e medie imprese; sia che si tratti di spassionata mancanza di dignità per le grandi imprese e le multinazionali. Le prime, spesso, non sono in grado di considerare che l’inesorabile conto alla rovescia dei giorni che mancano al termine del contratto non è affatto un incentivo a lavorare meglio. Le seconde, invece, non ne hanno proprio interesse: troveranno l’ennesimo rimpiazzo a buon mercato. 
Il timore perpetuo dell’incertezza del rinnovo – perché ci si fa intendere sin da subito che questo sarà concesso soltanto soddisfacendo i requisiti di iper-produttività e di cieca devozione alla causa – e la relativa ricerca costante di un altro impiego generano uno stato d’animo che nuoce alla salute del lavoratore e non è funzionale all’azienda.

Due sono i fattori che hanno contribuito a rendere sempre più sfumato il confine fra quelli che sono gli spazi e i tempi del lavoro e della vita oltre il lavoro (quel ritaglio di giornata che va dal tardo pomeriggio, se non direttamente dalla sera inoltrata, fino al traguardo di giornata, il coricamento):

  • l’esplosione della GIG economy, il modello economico che si basa sul lavoro occasionale, a chiamata, e temporaneo
  • la pervasività sempre maggiore delle piattaforme per quei lavori che si possono svolgere da remoto, e anche per quegli altri che invece necessitano di armarsi di coraggio e mettersi su strada per consegnare un panino in cambio di qualche spicciolo.
Un po’ di dati, fra presente, passato e futuro.

Siccome non è giusto rattristarsi così tanto col presente, pensiamo al giorno in cui tutto questo darà i propri frutti; quando si potrà almeno godere di una meritata pensione…

Non è proprio così. E lo sappiamo bene. Ci andremo molto più tardi di chi ci sta andando ora, e ne eravamo più che consapevoli già un anno e mezzo fa: nel rapporto Cng-Eures, dei 690 intervistati fra i 18 e i 35 anni più del 44% pensa che ci andrà soltanto dopo i 70 anni, circa il 35% pensa che ci andrà tra i 65 e 69 anni, mentre soltanto un minoritario 10,7% s’illude che ci andrà prima dei 65 anni. Il 73% del totale, poi, sa già che questa pensione non gli consentirà di vivere dignitosamente.

Parlando invece di stipendi – che perlomeno talvolta si ha il buon cuore di definire giustamente rimborsi – la situazione non migliora. Più del 30% dei giovani occupati “guadagna” meno di 800 euro lordi al mese.

Infine, i risultati dello studio “Impact of Covid-19 on young people in the EU” mostrano che i giovani sono stati i più colpiti dalle restrizioni con cui si è risposto alla pandemia, dalla conseguente perdita del lavoro, e sono quindi quelli con maggiori probabilità di trovarne un altro con contratti temporanei o a tempo parziale. Citando testualmente i risultati dello studio: “I giovani disoccupati o inattivi hanno avuto più probabilità di sperimentare l’insicurezza abitativa rispetto ad altri gruppi durante la pandemia (17% nella primavera del 2021) e hanno riferito di avere difficoltà a soddisfare autonomamente i propri bisogni economici (43%), oltre a non avere risparmi (39%); tuttavia, oltre la metà dei giovani ha dichiarato di vivere con i genitori, il che ha fornito una certa sicurezza”. Una certa sicurezza, sì: di rientrare fra i due terzi dei giovani che si trovavano “a rischio di depressione”.

Nel prossimo articolo saranno riportate delle testimonianze dirette di questi giovani scansafatiche, spesso presentati come causa del proprio male, nonché degli spunti per comprendere le reali cause strutturali di quel che non va, indagando anche alcune possibili soluzioni.