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LA COSCIENZA DI ZETA

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Io Capitano: il finale spetta a noi

La nuova pellicola di Matteo Garrone Io Capitano è una storia senza finale, un viaggio incompleto che narra di un’epopea che si interrompe nel mezzo. Il regista lascia uno spiraglio di immaginazione permeato di speranza: il grido vittorioso di Seydou, che con quel Io Capitano tocca le più intime corde e assolve dall’angoscia e dal senso di colpa che pervadono tutta la proiezione. Il sedicenne senegalese riesce a superare la pericolosa tratta del Mediterraneo, portando in salvo suo cugino e compagno di viaggio Moussa e le oltre duecento persone a bordo del barcone. Uomini, donne, bambini che sognano, insieme a lui, una vita dignitosa in Europa, un futuro migliore per il quale hanno attraversato deserto, atrocità, violenze, schiavitù e morte. Tutto in vista di un sogno che sembra si sia realizzato. 

Ma se si guarda questo film con gli occhi della realtà non si può uscire sollevati dalla sala, non c’è consolazione e alcun tipo di sollievo in quel lieto fine. Quel grido di forza non riesce ad estirpare la spina nel cuore: la consapevolezza del futuro che gli aspetta urla più forte. L’Europa che immaginano non esiste: centri di permanenza per il rimpatrio, clandestinità, sfruttamento lavorativo, criminalità, ghettizzazione e razzismo. Questo è ciò che li aspetta e ciò che avrei voluto dire a Seydou quando sognava di «firmare gli autografi ai bianchi» prima ancora di iniziare il viaggio. Lui mi avrebbe risposto che non c’è altra scelta. E forse, allora, gli avrei detto di tenere a cuore il suo nome fino a quando avrebbe potuto, perché in Italia non ci sarebbe stato spazio per ricordarselo. Da lì in poi sarebbe stato un migrante, e – come suggerisce il participio presente – non cessa mai di esserlo. 

Per saperne di più. ascolta l’episodio “Migranti e potenza delle narrazioni” di Amare Parole – podcast del Post condotto da Vera Gheno.

Mi sono interrogata su quante volte, comoda sul divano, io abbia assistito e preso inconsapevolmente parte a conversazioni nelle quali bianchi occidentali privilegiati si arrogavano il diritto di decidere della vita di persone come Seydou e Moussa, e di quante volte, al fine di strumentalizzazioni politiche, essi non vengano ritenuti esseri umani. Da decenni è in atto un processo di deumanizzazione nei confronti dei migranti, che attraverso le giuste parole e narrazioni ci permette di rimanere impassibili alle notizie di morti in mare. Se quelle persone non sono considerate come tali, bensì carico residuale (come ha definito il ministro Piantedosi), è più semplice per noi avere una coscienza pulita e legittimare il nostro status quo. Se invocano all’Invasione dei migranti non abbiamo tempo per simpatizzare e compatire migliaia di vite interrotte, perché dobbiamo preoccuparci delle nostre che sono in pericolo. Il risultato ottenuto è una percezione alterata della realtà, che si tramanda grazie alla paura e all’ignoranza. Come conseguenza si crea un clima di diffidenza nei confronti del diverso da noi, che potrebbe persino rubarci il lavoro, dicono. Un lavoro non qualificato che in molti casi si traduce in forme di caporalato: uno sfruttamento disumano che garantisce circa tre euro l’ora e mortifica la dignità personale. Inoltre con l’introduzione del reato di ingresso e soggiorno illegale, la legislazione italiana costringe i lavoratori migranti a non denunciare tale sfruttamento per la paura di essere arrestati o espulsi a causa dello status irregolare. Laddove si avanzano proposte sanatorie per regolarizzare i lavoratori stranieri, c’è sempre una parte della politica che coglie l’occasione per spuntare qualche consenso in più, additando questi come privilegiati nell’inserimento lavorativo, a discapito degli italiani.  I migranti aumentano anche la criminalità, dicono. Prospettive di vita inesistenti conducono gran parte dei clandestini ad entrare nell’area criminale, reclutati dalla malavita e impiegati nello spaccio di sostanze stupefacenti o in altri reati connessi. La mancanza di politiche organiche di integrazione e soprattutto di un modello di riferimento non permette un inserimento degli immigrati nel tessuto economico e sociale del Paese. Aiutamoli a casa loro allora, ignorando che i finanziamenti che l’Italia stanzia per la Libia alimentano i centri di detenzione per stranieri, definiti centri di accoglienza, luoghi dove gli esseri umani sono sottoposti a trattamenti degradanti.

Dunque l’impreparazione da parte delle Istituzioni traduce l’immigrazione in invasione, persone in criminali, ricchezza culturale in emergenza.

Ma se quel carico residuale approdasse sulle coste di Lampedusa con uno yacht, sarebbe ancora un’invasione?

Il classismo alla base dell’ultimo decreto sui centri per la permanenza per il rimpatrio suggerisce la risposta alla domanda. La proposta è di stabilire una cauzione di circa 5000 euro per evitare di finire in questi centri che altro non sono che luoghi di detenzione nei quali i migranti subiscono nuove vessazioni a suon di manganellate, estendendo tale periodo fino a 18 mesi. Tralasciando l’incostituzionalità della nuova norma del governo Meloni , notiamo come sia radicato un principio discriminatorio su base economica. Se sei povero non hai diritto a vivere con dignità e con rispetto, dopotutto non sei una persona ma un migrante.

CPR

«Voi volete farci morire in mezzo al mare», gridava disperatamente Seydou sul barcone, non sapendo che vivere sarebbe significato tutto questo, e io avrei voluto avvisarlo. Ma più di tutto avrei voluto tirare un sospiro di sollievo insieme a lui alla vista delle coste italiane, consolandolo perché il peggio era passato. 

Io Capitano, delicato e cruento allo stesso tempo, ha virato la traiettoria del nostro punto di vista; ora è compito nostro sviluppare quel finale, non lasciandolo annegare in speranze fatte d’ipocrisie. Combattere con noi stessi e con i nostri privilegi è difficile, alzarsi dal divano è scomodo, ma conoscere ed essere consapevoli è un nostro dovere morale