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LA COSCIENZA DI ZETA

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La cittadinanza non è un gioco

Nelle scorse settimane si è tornati a parlare di riforma cittadinanza, con la speranza che milioni di giovani italiani «di fatto ma non di diritto» possano finalmente acquisire quel pezzo di carta, che consentirebbe loro di godere degli stessi diritti dei loro concittadini, italiani per discendenza. La proposta di legge Ius scholae, di cui il relatore è il deputato Giuseppe Brescia, asserisce che la cittadinanza italiana sarebbe potuta essere ottenuta se il minore straniero «che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età e che risieda legalmente in Italia, qualora abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale, di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è necessario aver concluso positivamente il corso medesimo».

Questa proposta nasce per mettere d’accordo le varie ideologie dei partiti, senza mettere invece al primo posto le urgenti necessità di tutte le persone che aspettano una riforma del genere. Infatti, anche se pensata per mettere d’accordo tutti unanimemente, gli «emendamenti-burla» non hanno tardato a farsi ostacolo del destino di circa 280.000 bambini e ragazzi, che secondo Lega e Fratelli d’Italia (ormai campioni di ostruzionismo) dovrebbero conoscere le ricorrenze delle feste popolari, le sagre, eseguire test su presepi e così via. Naturalmente tutto ciò è pensato per bloccare la proposta, ma oltre che essere una grande presa in giro, un’insulsaggine e un’evidente negazione a priori della cittadinanza, la questione ha assunto la forma di uno sporco gioco politico. In questo caso se per la Destra la negazione di un diritto, e non per la prima volta, rappresenta fonte di gioia – come il caro Igor Iezzi non ha mancato d’evidenziare con patetici tweets sull’omonimo social- per milioni di cittadini questa è una sconfitta, una delusione, un’ingiustizia.

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La legge sulla cittadinanza oggi in vigore risale al 1992 e, dopo trent’anni, il contesto sociale e politico in cui essa sorse si può definire totalmente evoluto rispetto ad oggi. All’epoca l’Italia contava circa 300.000 stranieri, mentre oggi questo numero non rappresenta nemmeno un decimo della presenza totale. Gli immigrati e i loro figli di seconda generazione sono la forza vibrante del paese, il motore della scuola, la ricchezza culturale del paese, tanto quanto lo sono gli italiani che sono nati e cresciuti in Italia per generazioni. Acquisire la cittadinanza, in questo caso per bambini e ragazzi, significherebbe metterli al pari dei loro coetanei, perché proprio come loro, sono nati e/o cresciuti in Italia, e non c’è nessuna postilla da dover aggiungere per arrivare al loro pari. Non hanno bisogno di eccellere per meritare di essere italiani, arrivare con il massimo dei voti, o soddisfare altre richieste ultra specifiche e irrealizzabili, perché non ci deve essere la distinzione, il gradino da salire per essere considerati italiani; anche perché il paragone è fallace e non veritiero. Non esiste nessun bambino o ragazzo italiano alla Salvini o alla Meloni, quindi perché premere sulla stigmatizzazione, forgiare uno standard di italianità?

Ogni volta che si discutono leggi a carattere sociale, esse vengono puntualmente buttate giù dalle forze conservatrici che mettono i bastoni fra le ruote alla costruzione di un’Italia nuova, che conta di un’identità che non è possibile etichettare per quanto essa è variopinta. La maggioranza dei cittadini viene ignorata, per poi essere oggetto di discriminazioni, penalizzati sul lavoro, e ostacolati nell’accesso al diritto allo studio. Ma ovviamente, se gli stranieri non ottengono la cittadinanza, non possono nemmeno votare.

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Chi ha bloccato la proposta, seppur non perfetta, ed esulta per una barbarie simile, nemmeno può immaginare le difficoltà che si hanno con i processi burocratici per ottenere i permessi di soggiorno, lo sfruttamento gratuito a lavoro a causa dei contratti non regolarizzati, le occhiatacce delle forze dell’ordine quando viene ordinato di tirare fuori i documenti, il sito del ministero impossibile da trovare per verificare lo stato del permesso di soggiorno (provato sulla mia pelle all’età di otto anni), che se non controllato ogni giorno, lo si può anche salutare per sempre. Per non parlare degli episodi vergognosi nelle questure, gli appuntamenti di dieci minuti che possono cambiare il futuro della permanenza in Italia, i requisiti reddituali da soddisfare, i controlli in casa, e chi ne ha più ne metta.

La vita di uno straniero in Italia non è facile. Lo straniero in Italia deve fare i conti con innumerevoli fattori, che sì, possono contribuire in parte al percorso di integrazione; ma la sofferenza, il tempo perso e i traumi provocati alla fine della storia, non serviranno, perché all’esterno non sarà mai considerato totalmente italiano nel paese in cui abita da decenni, di cui conosce la lingua, in cui paga le tasse, in cui rispetta la legge.

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Avere quella manciata di diritti in più, sì, farebbe comodo, ma i signori in giacca e cravatta che servono lo Stato italiano hanno paura della sostituzione etnica, di essere fagocitati dagli immigrati che non vedono l’ora di procreare infinitamente fino a che non supereranno la popolazione italiana.

È facile togliere i diritti alle minoranze non tutelate, perché è più facile gestirle secondo i propri avari fini. L’Italia di seconda generazione resiste e combatte, perché è così che è cresciuta, con la speranza di poter coronare finalmente i propri diritti contro l’ingiustizia.