Se per esistere bisogna appartenere ad un gruppo e se per essere bisogna che qualcuno riconosca la tua identità, allora la FOMO gioca una partita con l’uomo ad armi non esattamente alla pari.
Sigla dell’espressione inglese Fear of Missing Out, la FOMO è letteralmente la paura di essere esclusi, essa coincide con il timore di perdere o di non partecipare ad un’esperienza piacevole che coinvolge amici o conoscenti. Andrew Przybylski, professore e ricercatore nell’ambito delle scienze umane presso l’Università di Oxford, ritiene che le cause alla base di quest’ansia sociale possano riscontrarsi nel tentativo di soddisfare alcuni bisogni di base propri dell’essere umano: la capacità di influenzare il proprio ambiente, la sensazione di essere autonomo e al contempo connesso con l’altro.
Sembrerebbe dunque essere intrinseca alla natura dell’uomo: quante volte da bambini capitava di versare lacrime di sangue per non aver potuto partecipare a quel compleanno dove c’erano tutti? Nessuno avrebbe mai classificato l’istinto alla socialità del bambino con la FOMO, e il pensiero susciterebbe anche una certa ilarità nonostante non si possano negare punti di contatto tra le due percezioni. Per non parlare di quel sentimento di inadeguatezza rispetto ad un collega di lavoro o di studio, vedendo i suoi traguardi raggiunti, la sua scalata verso il successo mentre noi rimaniamo fermi, a guardare dal basso il tempo scorrere e scandire nuovi percorsi dai quali siamo esclusi. Non è forse anche questa una forma di FOMO?
E allora perché è nato il bisogno di coniare un’espressione per descrivere istinti connaturati all’uomo fin dall’alba dei tempi? E perché è entrata nel nostro vocabolario solo nel 2004 in concomitanza con la nascita di Facebook?
È difficile dire che si tratti solo di mere coincidenze. Da quando i social network hanno preso il sopravvento sulla nostra vita questa forma di ansia sociale ha acuito le sue caratteristiche, espandendosi viralmente soprattutto tra giovani e adolescenti, creando dunque la necessità di riconoscerla come nuova forma di comportamento sociale. Ad oggi la FOMO non rientra in alcuna categoria diagnostica né rappresenta un disturbo riconosciuto a livello psichiatrico, ma gli effetti rintracciati incidono indubbiamente sulla salute mentale e sul benessere psico-fisico. L’ansia spasmodica di controllare le notifiche e di aggiornare il feed social per stare costantemente al passo comporta continue interruzioni dalle attività giornaliere con un aumento di distrazione, un minor rendimento e problemi di sonno. Assistere ad esperienze gratificanti per altri contribuisce a svalutazioni personali, dettate da sensi di colpa indotti dalla convinzione di usare il tempo nel modo sbagliato e conduce a maggiori livelli di depressione. E così la FOMO assume un nuovo significato e diventa la Paura di essere disconnessi. Se ne parla, addirittura, nel rapporto lanciato dal Surgeon General degli Stati Uniti Vivek Murthy, capo operativo del Corpo incaricato del servizio sanitario pubblico e il principale portavoce in materia di salute pubblica del governo federale.
«Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per determinare il pieno impatto che l’uso dei social media ha su quasi tutti gli adolescenti in tutto il paese, i bambini e gli adolescenti non possono permettersi il lusso di aspettare anni prima di conoscere l’intera portata degli effetti dei social media».
Alcuni ricercatori credono che un’esposizione eccessiva dei social media possa produrre una stimolazione esagerata del sistema di ricompensa del cervello, responsabile della motivazione, dell’apprendimento associativo e delle emozioni positive, innescando dei percorsi comparabili a quelli delle dipendenze. Secondo il rapporto, un uso frequente dei social media potrebbe essere associato con cambiamenti nello sviluppo del cervello in particolare dell’amigdala (importante per l’apprendimento e comportamento emotivo), e la corteccia prefrontale (importante per il controllo degli impulsi e la regolazione emotiva). La FOMO non è una patologia, come è già stato riferito, ma questo non deve servire ad una delegittimazione di un problema che riguarda secondo gli studi più di un terzo dei ragazzi dai 13-17 che, secondo le loro stesse parole, usano i social media quasi sempre. A tal proposito è stato istituito un Centro di eccellenza sui Social Media e la Salute Mentale Giovanile da parte dell’ Accademia Americana dei Pediatri che si occupa di creare un ecosistema digitale salutare.
Sembrerebbe dunque che l’istinto primordiale di socialità e appartenenza ad un gruppo si sia mischiato ad un’instabilità emotiva che vede nell’estraneo una fonte di pericolo dal quale, però, non riesce a distaccarsi per la paura della solitudine, che non sembra diventare un trend accettabile. La solitudine può essere normalizzata e può diventare virale solo se in posti mozzafiato e in viaggi pseudo spirituali per ritrovare se stessi, come ad esempio dimostrano gli insegnamenti instagrammabili dei life coach. Non si può di certo essere soli, senza essere estetici. Il confronto con l’altro, indispensabile alla dinamicità della società, diventa logorante perché non si riesce mai a tenere il passo, bombardati da centinaia di fattori esterni e migliaia di vite che ci sembrano tutte più appetibili delle nostre.
Forse dovremmo solo accettare e perdonare noi stessi per non sfruttare sempre il tempo nel modo migliore, scollegarci e tal volta fermarci, apprezzando la solitudine e quella noia naturale.