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La segretezza delle fonti giornalistiche: il caso Report e la posizione della CEDU

Pochi giorni fa, nella mattinata di martedì 24 maggio, la Direzione Investigativa Antimafia (DIA), in esecuzione del mandato della Procura di Caltanissetta, perquisiva la casa dell’inviato di Report, Paolo Mondani, e la redazione giornalistica stessa. Proprio il giorno precedente, il programma targato Rai1, aveva mandato in onda un’inchiesta sulla strage di Capaci, da cui sono emersi nuovi potenziali elementi di rilievo investigativo.

In particolare, dalla ricostruzione effettuatasi evidenziava la presenza di Stefano delle Chiaie, leader dell’organizzazione neofascista Avanguardia Nazionale, sul luogo dell’attentato che il 23 maggio 1992 uccideva Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Si tratterebbe di un elemento che lega le stragi terroristiche di matrice neofascista degli anni di piombo e quelle di mafia del 1992-1993, accomunate dalla volontà di “destabilizzare per stabilizzare”. Strategia che consisteva nel creare un climax di tensioni sociali tramite stragi e violenze talmente inaudite da instillare nella popolazione paura, terrore e insicurezza, con il fine ultimo di rendere auspicabile agli occhi dell’opinione pubblica un intervento statale di stampo autoritario. 

Molteplici sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) hanno chiarito che perquisizioni e sequestri nei confronti dei giornalisti, anche nel caso di pubblicazioni di notizie su inchieste giudiziarie in corso, rappresentano una violazione della libertà di espressione sancita dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo. 

Sin dal leading case sul diritto alla segretezza delle fonti rappresentato dalla sentenza Goodwin contro Regno Unito del 27 marzo 1996, la Corte europea ha riconosciuto che, proprio per il ruolo di watchdog svolto dal giornalista, centrale in una democrazia, gli Stati devono garantire alcuni “privilegi” ai reporter. Ed invero, poiché per informare su notizie di interesse pubblico, il giornalista deve cercare notizie e deve farlo anche – soprattutto – ricorrendo a fonti non ufficiali, la segretezza delle fonti è un elemento essenziale per lo svolgimento dell’attività giornalistica. 

Se informatori e fonti non ufficiali che si rivolgono al cronista, fornendo notizie e documenti, non fossero in concreto protetti dalla segretezza e dall’obbligo, anche deontologico, del giornalista di non svelare l’identità delle stesse fonti, esse smetterebbero di fornire notizie di interesse generale, con la grave conseguenza che l’intera collettività sarebbe privata non solo del diritto ad essere informati, ma anche di altri diritti fondamentali per la democrazia. 

Con la sentenza depositata il 6 ottobre 2020 nella causa Jecker c. Svizzera (ricorso n. 35449/14), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha fissato un ulteriore tassello per rafforzare la libertà di stampa, in particolare affermando il principio secondo cui gli Stati non possono obbligare un giornalista a rivelare la fonte malgrado ciò potrebbe essere utile all’autorità giudiziaria per individuare l’autore di un reato. 

Nel nostro caso, però, il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, interpellato dall’Ansa ha dichiarato: «Da parte nostra c’è massima collaborazione. Siamo contenti se abbiamo dato un contributo alla magistratura per esplorare parti oscure». E ancora: «Il collega aveva già avuto un colloquio con il procuratore. Noi siamo sempre stati collaborativi con la giustizia, pur garantendo il diritto alla riservatezza delle fonti».

Ciò che sorprende infatti riguarda la modalità e il tempismo con i quali inizialmente è stata predisposto l’atto, ovvero con un decreto di perquisizione che riportava la data del 20 maggio, cioè tre giorni prima della messa in onda del servizio “La bestia nera”.

L’inchiesta sul contenuto della trasmissione Report, con la perquisizione eseguita dalla DIA nei confronti di “un giornalista che non è indagato”, punta a “verificare la genuinità delle fonti”. Lo ha affermato il procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, sottolineando che la “perquisizione non riguarda in alcun modo l’attività di informazione svolta dal giornalista, benché la stessa sia presumibilmente susseguente ad una macroscopica fuga di notizie, riguardante gli atti posti in essere da altro ufficio giudiziario”. 

Infatti, solo 24h ore dopo l’avvio delle operazioni presso l’abitazione del giornalista e presso la redazione di Report, la Dda (La direzione distrettuale antimafia) ha sospeso le operazioni revocando il decreto di perquisizione e di acquisizione di copia forense di pc e telefonini del nostro giornalista. Come affermato dal conduttore di Report in un post su FacebookRibadisco il pieno rispetto dell’operato della magistratura, e ribadisco che non ho percepito il decreto di perquisizione come un atto ostile nei confronti di Report o del nostro inviato Paolo Mondani. Abbiamo sempre collaborato con la magistratura e con le forze dell’ ordine. Abbiamo però sottolineato un possibile problema di tutela delle fonti.”

Nel corso delle operazioni, quindi, non risultano acquisiti atti o informazioni sensibili.

L’esito “positivo” di questa vicenda, per quanto può farci tirare un sospiro di sollievo, non rappresenta di certo la soluzione a questo problema, anzi, ribadisce l’enorme inadeguatezza dell’ordinamento giuridico italiano, il quale andrebbe rivisto adottando una nuova disciplina conforme ai principi costituzionali e convenzionali.

La necessità di una riforma in questo senso è lampante, soprattutto se pensiamo alla decisione del Tar Lazio nel giugno 2021 in cui si ordinava a Report di rivelare le sue fonti dando ragione all’esposto di un avvocato milanese citato in un’inchiesta della trasmissione sugli appalti lombardi. Per non pensare al caso di poche settimane prima quando, un deputato di Italia Viva, Luciano Nobili, nel giorno in cui la trasmissione mandava in onda un nuovo servizio in cui si documentava l’incontro in un autogrill di Matteo Renzi con l’alto funzionario dei servizi Marco Mancini, presentò un’interrogazione parlamentare nella quale si ipotizzava che Report avesse pagato una società lussemburghese per avere dei dossier contro il leader di Iv. 

Una stampa libera è un organo indispensabile di una società democratica, esercita, e consente ai cittadini di esercitare il diritto di informazione, il che fonda presupposto irrinunciabile per una reale ed efficace funzione di sorveglianza, ancor di più se parliamo di vicende che vedono coinvolte le istituzioni ad ogni livello, vicende rimaste ancora oscure a trenta anni di distanza.