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LA COSCIENZA DI ZETA

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La Settimana Santa del ciclismo

“Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”

(Mc 14:37-38; Mt 26,40-41).

Può capitare di domandarsi cosa spinga un ciclista ad affrontare coscientemente duecentocinquanta chilometri di strada, a portarli a termine nel minor tempo possibile con condizioni climatiche potenzialmente avverse e un fato beffardo pronto a fargli assaggiare l’asfalto. Ancor di più, capita di interrogarsi quando queste centinaia di chilometri sono infarciti di muri, ossia brevi salite con pendenze da capogiro ricoperte da uno strato di pavé. Si rischia di sfociare nel terzo grado nel momento in cui ci si chiede perché percorrere a velocità folle mulattiere di pietre sconnesse, scomode anche per i carri dell’esercito francese durante la Prima Guerra Mondiale.

Spiegazione non c’è. È semplicemente correre il Giro Delle Fiandre e la Parigi Roubaix. I due piaceri supremi di quei masochisti che sono gli amanti del ciclismo. Rispettivamente, la Domenica delle Palme e di Pasqua della settimana santa del ciclismo.

Non è raro che questo sport incontri aspetti tipici della religione o più in generale dell’ultraterreno. Forse perché in salita si volge sempre lo sguardo all’insù, verso il cielo. Come se cercare di superare i limiti dell’umano in sella ad una bicicletta, fosse l’unico modo per avvicinarsi a Dio. In questa sede non si vuol essere blasfemi o irrispettosi delle credenze altrui, ma il Paterberg, l’Oude Kwaremont o il Koppenberg (i muri di cui sopra, ndr) appaiono come delle moderne stazioni della via crucis del corridore.

Se la sofferenza non fosse sufficiente, il cambiamento climatico ha lanciato una perturbazione quanto meno fuori stagione, che ha spolverato il Belgio di un velo di neve bianca che probabilmente sarà la scenografia dell’ennesima impresa di quegli scellerati che sono i corridori.

Si arriva alla Ronde con un pensiero rivolto a Sonny Colbrelli, vittima di un collasso dovuto probabilmente ad un arresto cardiaco, sopraggiunto sul traguardo della prima tappa della Volta a Catalunya. Attualmente ricoverato presso l’Ospedale Universitario di Padova, si sarebbe di certo giocato le sue carte in Belgio. Colui che è l’eroe, nascosto da una maschera di fango, trionfatore nell’ultima edizione, biblica e autunnale, dell’enfer du nord.

Mathieu Van der Poel è il favorito, a sentire i bookmakers. Non fosse altro che sembra aver recuperato dalle noie fisiche che lo hanno afflitto lungo tutto l’inverno e ha già trionfato alla Dwars door Vlaanderen: un ottimo antipasto prima della portata principale. Nel 2020 ha vinto, nel 2021 ha perso (inaspettatamente, ndr) la volata con Kasper Asgreen. Domenica tenterà di fare il bis correndo come al solito senza fare troppi calcoli e affidandosi alle proprie sensazioni. Mancherà la sua nemesi, il suo gemello diverso, Wout van Aert alle prese con una recentissima positività al covid come annunciato dalla sua squadra, la Jumbo Visma.

Ci sarà invece il baby cannibale e ultimo dei romantici Tadej Pogacar, all’esordio nelle Fiandre, senza la pressione del pronostico (che in ogni caso riuscirebbe a non sentire) e con quella spensieratezza mista a curiosità di un bambino al primo giorno di scuola.

C’è chi dice no. Guarderà la corsa in televisione Biniam Girmay, fresco vincitore della Gand-Wevelgem e quindi già – a soli ventuno anni – il più grande corridore africano della storia. Come riportato da Wielerfits ha scelto, da programma, di tornare a casa da moglie e figlia, con lo sguardo rivolto al Giro d’Italia.

“Voglio tornare a casa. La mia famiglia è la cosa più importante della mia vita. Più importante della bici, sì. Il mio piano era di tornare a casa da mia moglie e da mia figlia e mi atterrò a quel piano. Ho solo 21 anni, ho un sacco di tempo per tornare a correre il Fiandre. Prima dell’inizio di stagione abbiamo redatto e parlato con mia moglie Saliem del programma. Entrambi lo abbiamo accettato, voglio attenermi a quello e non vedo l’ora che arrivi il Giro d’Italia”.

Può capitare che, dopo essersi scervellati a trovare un senso a tutto questo Golgota di fatica che poche volte viene ricompensato con vittorie e soddisfazioni, si concluda l’indagine con una risposta. Magari mutuando parzialmente le parole di Rino Formica.

Se la politica è “sangue e merda”, il ciclismo è merda e basta.