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LA COSCIENZA DI ZETA

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Perché il referendum sulla cannabis è stato bocciato?

La Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile il referendum sulla cannabis legale, che proponeva di depenalizzare la coltivazione e di eliminare il carcere per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito. Lo ha detto il presidente della Corte Giuliano Amato, in una conferenza in cui ha anche annunciato che uno dei due referendum sulla giustizia sui quali ancora si attendeva il parere della Corte Costituzionale è stato approvato. 

Parlando del quesito sulla cannabis, Amato ha detto che le ragioni della decisione sono due: anzitutto il referendum, se approvato, avrebbe portato a una «violazione degli obblighi internazionali dell’Italia», perché avrebbe consentito la coltivazione anche di «droghe pesanti». La prima parte del quesito – ha dichiarato il presidente della Corte Costituzionale – avrebbe previsto che la coltivazione di piante «che includono le cosiddette droghe pesanti» diventasse penalmente irrilevante. In questo modo, l’Italia avrebbe violato «obblighi internazionali plurimi» che sono «un limite indiscutibile dei referendum».

Ma cosa prevedeva il referendum sulla cannabis?

Innanzitutto non si tratta di legalizzare la cannabis in maniera generale e incondizionata. Il quesito proposto avrebbe agito in maniera chirurgica su alcuni aspetti del Testo unico degli stupefacenti (d.P.R. 309/90), cercando di “attenuare le pene rispetto a fatti che, anche secondo recenti sentenze della Cassazione, non mettono in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza, né ledono la salute individuale e collettiva”, scrivevano su Il manifesto Giulia Crivellini e Letizia Valentina Lo Giudice, avvocatesse che hanno lavorato alla formulazione del quesito.

Il quesito referendario valutato dai giudici della Consulta prevedeva:

  • l’abrogazione del verbo “coltiva” dal comma 1 dell’articolo 73, che depenalizza la coltivazione;
  • l’abrogazione delle pene detentive da 2 a 6 anni dal comma 4 dello stesso articolo 73 per quanto riguarda produzione, vendita, cessione e altre condotte ma relativamente alle sostanze indicate nelle tabelle II e IV del testo sugli stupefacenti (prodotti della cannabis e altre droghe leggere), lasciando però in vigore le multe da migliaia di euro;
  • l’abrogazione di alcune sanzioni amministrative previste dall’articolo 75, in particolare la sospensione della patente, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli, oltre che del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori.

Gli obiettivi che volevano essere raggiunti con questi passaggi sono:

  • la depenalizzazione delle coltivazioni domestiche o “rudimentali” di una quantità esigua di piante di cannabis; 
  • l’eliminazione del ricorso al carcere per le altre condotte (detenzione, spaccio, cessione…) di modiche quantità di hashish o marijuana, punibili soltanto con multe;
  • l’eliminazione, tra tutte le sanzioni amministrative applicabili, della sospensione della patente o altri permessi di guida, sanzione che implica controlli frequenti, corsi costosi, spostamenti limitati (Attenzione: questo non vuol dire che la guida sotto l’effetto di sostanze diventi lecita).

Come si legge sul sito del comitato per il referendum, il quesito aveva l’obiettivo «di depenalizzare la condotta di coltivazione di qualsiasi pianta», non soltanto della cannabis. Il comitato specificava però che «la cannabis è l’unica sostanza che non richiede ulteriori passaggi prima di essere consumata» e che se il referendum fosse passato «la detenzione di piante, foglie e fiori a fini di spaccio e le attività di fabbricazione, estrazione e raffinazione, necessarie ad esempio alla cocaina e l’eroina» avrebbero continuato «a essere punite»

La seconda ragione per respingere il referendum è che il quesito proposto aveva problemi di formulazione, che secondo la Corte avrebbero provocato una «inidoneità allo scopo»: in pratica, il quesito referendario non avrebbe consentito una depenalizzazione completa, perché trascurava di eliminare alcune parti del codice che sarebbero entrate in conflitto tra loro. 

Il dibattito sulla cannabis si conferma complesso e divisivo. Nonostante l’opinione pubblica negli ultimi anni sia sempre più favorevole alla legalizzazione, questa “volontà popolare” fatica a farsi strada tra gli apparati giuridici e politici. Il motivo? L’errata formulazione del decreto (in questo caso) e l’immobilità del sistema politico. Siamo ben lontani dal trovare una soluzione ai problemi causati da un testo unico, quello sulle droghe, ormai antiquato e causa indiretta del triste fenomeno del sovraffollamento delle carceri – per citarne uno.

Sarebbe auspicabile la proposta di un nuovo decreto-legge, scritto ad hoc per la legalizzazione della cannabis e derivati, che ne regoli la vendita, il controllo da parte dello Stato, i quantitativi e sopratutto che regoli i “confini” entro cui si rimane nella legalità. In questo modo si aprirebbe una nuova finestra di dialogo per modificare il d.P.R. 309/90, rendendolo più attuale ed efficace.