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PUPILLI – Miami Heat: la grande scommessa

È il 19 Aprile del 2019 quando Dwayne Wade, dopo discutibili esperienze ai Bulls e ai Cavs, lascia da re i suoi Miami Heat. Per la franchigia della Florida quel momento rappresenta un punto alla fine di un romanzo ricco di capitoli gloriosi. L’unica mossa a disposizione del management, a quel punto, era di iniziare un processo di rebuilding, cercando buone trade sul mercato e soffrendo per un qualche anno in modo tale da avere migliori scelte al draft negli anni a seguire.

Nell’estate di quell’anno il team tre volte campione NBA riuscì a concedersi i servigi di Jimmy Butler e Tyler Herro, arrivato dal Draft. Nessuno poteva mai immaginare che, nella stagione successiva, gli Heat riuscissero a raggiungere le Finals. Sconfitti dai Lakers dell’ex LeBron James, quel titolo mancato non ha spento l’ambiente governato da coach Erik Spoelstra. Infatti, nonostante la brutta serie contro i Bucks l’anno scorso, la determinazione e la passione hanno trascinato gli Heat di nuovo alle finali della Eastern Conference. Ma come sono riusciti a poter ambire al titolo senza un superteam? La risposta a questa domanda si articola in tre parti: difesa, organizzazione e Jimmy Butler.

Grazie a gli american sniper Herro e Robinson, all’esperienza di due fenomeni come Butler e Lowry e all’esplosività di Adebayo la forza offensiva di Miami si dimostra devastante per ogni difesa della NBA. Nelle 12 partite giocate in questi PO gli Heat hanno viaggiato con il 46.6% al tiro, producendo una media di 108.0 punti a partita. Puntando su un giro-palla veloce vicino l’arco dei tre punti, Spoelstra riesce a sfruttare le penetrazioni di Butler o Bam Adebayo. Questo ingombra l’area allarmando gli avversari, in modo tale da poter liberare i tiratori in attesa. Questa tattica è ormai un clichè nella NBA moderna, ma ad introdurla fu proprio l’attuale head coach degli Heat, quando nelle sue mani c’erano giocatori completamente diversi e la Lega non aveva ancora fatto la conoscenza di Steph Curry & co.

Un altro dei fattori che hanno portato i primi classificati della Eastern Conference a raggiungere questi risultati è sicuramente la grande organizzazione difensiva. Onnipresenti, Butler ed Adebayo sono dei difensori capaci di mandare in tilt anche l’MVP della stagione – Nikola Jokic – con le loro mani da piovra. Il supporto di tutta la squadra in fase difensiva permette di rubare 8.5 palloni a partita. L’apporto difensivo maggiore lo concede P.J. Tucker, che già l’anno scorso fu una delle chiavi del titolo dei Milwaukee Bucks. Il numero 17 è una vero incubo per gli avversari, entra nelle teste come ai suoi tempi faceva Rodman, seguendo il suo uomo anche in bagno.

Lo spirito, l’orgoglio, la forza e la passione di Miami sono rappresentati da un uomo in missione, un giocatore spesso snobbato e fin troppo criticato: Jimmy Butler. Migliore per punti (29.8), rimbalzi (7.7) e assist (5.4) del team, le sue statistiche nei PO sono ancora migliorate, attestandolo come leader di questa squadra. Nessuno ha più partite da 40 punti di lui in questa post-season, così come nessuno ha più partite da 40 punti, 5 rimbalzi e 5 assist nella storia degli Heat. Non sarà il miglior tiratore, difensore o play del roster, ma nei momenti dove la palla scotta, l’aria è pesante e l’AmericanAirlinens Arena trema, Butler prende la situazione in mano e spesso la risolve.

Butler è il cuore di team costruito con saggezza, pesando al futuro e scegliendo i giocatori con le giuste caratteristiche. Le finali di Conference contro Boston portano alla mente una NBA passata, quando ad Est Celtics e Heat dominavano su tutte con i Big Three. Dopo una gara 1 giocata a ritmi insensati e vinta dalla franchigia della Florida, in gara 2 abbiamo visto il cuore dei 17 volte campioni NBA, portati sulle spalle da Marcus Smart. Non ci resta che metterci comodi e vedere se ai Miami Heat riuscirà l’ennesimo miracolo.