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Schwa e linguaggio inclusivo: tra criticità e nuove rappresentazioni

Il dibattito sull’inclusività del linguaggio è sempre più dirompente, sia fra importanti studiosi della lingua che fra gli attivisti che operano sui social. La moltitudine di opinioni espresse riguardo alla questione tocca vari aspetti linguistici e ideologici da cui sorgono criticità e spunti di riflessione, per cui vanno incluse nel dibattito anche le posizioni più conservatrici rispetto allo sviluppo della lingua.

L’italiano possiede due generi grammaticali, il maschile e il femminile; perciò a differenza dell’inglese, che morfologicamente non marca il genere, nell’italiano il riferimento ad esso è sostenuto da più parti del discorso (es. l’articolo, l’aggettivo, il verbo, il nome, i pronomi). Questo limite grammaticale crea delle difficoltà, sia nel parlato che nello scritto, nel momento in cui bisogna rivolgersi alle persone non-binary, che non si identificano in nessuno dei due generi.

Per fare in modo che tutti coloro che usufruiscono della stessa lingua, per comunicare all’interno della medesima società, non si sentano discriminati o esclusi, è stata avanzata la proposta di introdurre nell’uso linguistico lo schwa (ə, ɜ per il plurale). La linguista Vera Gheno è una promotrice di questo fonema che, però, in italiano non ha valore distintivo e quindi non è portatore di significato. Sebbene nei dialetti italiani esso venga pronunciato, non viene trascritto e importarlo significherebbe modificare appositamente la morfologia della lingua, andando contro il naturale e spontaneo mutamento a cui ogni idioma va incontro.

La lingua è specchio dei cambiamenti socio-culturali e sebbene questa non possa essere imposta o prescritta, inevitabilmente risente dei bisogni derivanti dalla realtà in cui vive e si evolve. I parlanti fanno la lingua ed è innaturale modificarla dall’alto, perché il mutamento dovrebbe avvenire spontaneamente secondo gli strumenti che la lingua stessa offre. Ma questo non vieta che si possa sperimentare, agendo al di fuori del piano standard dell’italiano, soprattutto quando sono lɜ stessɜ parlantɜ a richiederne una modifica.

Nell’intento comunicativo esiste un accordo fra i parlanti e/o i lettori, quindi in contesti sperimentali o concordati è possibile l’utilizzo dello schwa, soprattutto virtualmente. Anche se nel parlato potrebbero riscontrarsi dei problemi per quanto riguarda il suono del fonema (che è una vocale intermedia), come ribadito in precedenza, la sua pronuncia non è impraticabile. Ad ogni modo, introducendo lo schwa nel linguaggio scritto, occorre prestare attenzione a determinati concetti. La forzatura della lingua è un tentativo che non ha mai funzionato, per cui un uso omogeneo dello schwa, sia sul piano linguistico che ideologico, dovrebbe essere stimolato da un retaggio culturale inclusivo, tollerante e diffuso.

Non è impossibile: la rivoluzione si può attuare anche con le parole che sensibilizzano al rispetto e al valore dell’accettazione; purtroppo la lingua italiana si presta poco incline a una soluzione che sia valida dal punto di vista grammaticale. In merito a ciò, l’accademico Paolo d’Achille ha scritto un articolo precisa che il genere grammaticale non ha nulla a che vedere con l’identità di genere. Cosa vuol dire? Che la lingua non esprime l’identità di persona e il mancato supporto linguistico non priva della possibilità di riconoscersi in ciò che si vuole. Il problema sembra persistere, ma la soluzione su cui i linguisti si trovano maggiormente d’accordo è quella dell’utilizzo del maschile plurale non marcato, che l’italiano può già offrire con i suoi strumenti.

D’Achille infatti sottolinea che «un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico». Questo metodo comporterebbe l’utilizzo del genere standard che indica una collettività di persone, cose o animali a prescindere dai componenti (es. “Tutti”). Volendo impiegare lo schwa al posto della desinenza -i, si opacizzerebbe la distinzione di genere (es. “Tuttə”).

Questa formula che spesso viene impiegata sui social è condivisa ampiamente tra i giovani e funziona a tutti gli effetti, pur non senza avversità. I linguisti non mancano di specificare che: lo schwa crea problemi di lettura per persone dislessiche; non copre e non funziona con i suffissi come -tore/-trice; il riferimento al genere sarebbe comunque evidenziato dalle altre parti del discorso, quindi si dovrebbe ricorrere alle perifrasi. La rigidità degli accademici si riflette anche sulla proposta dell’asterisco che non è un segno linguistico e né ha un corrispettivo fonico (es. “Tutt*”).

Parallelamente a questo rigore che difende i principi primari della lingua, lo schwa continua ad avvalersi di un significato importante, sia nei rapporti interpersonali che nella comunicazione globale. Dietro questo simbolo si erge la legittimazione di un principio di libertà di espressione della propria interiorità, che passa anche attraverso il linguaggio, il quale è formato, ma dà anche forma alla realtà che percepiamo. In altre parole, tutto ciò a cui non sappiamo riferirci è come se non esistesse sul piano comunicativo. Ma l’utilizzo dello schwa richiede consapevolezza ed è costruttivo conoscere ciò che si nasconde dietro le ragioni di chi non ne è a favore.

Certo, non si può pretendere di cambiare radicalmente una lingua da un giorno all’altro; anche per l’italiano ci sono voluti secoli per risolvere la famigerata questione della lingua. Ciò non toglie che si possa comunque sperimentare nel corso del tempo con la lingua e verificarne gli esiti, soprattutto se questo cambiamento è mosso da un ideale e dalla richiesta diretta delle persone discriminate che necessitano di una rappresentazione che finora non hanno mai avuto, prima di tutto a livello linguistico.

Per il momento le soluzioni non sembrano totalmente efficienti e finché non se ne troverà una che si adatti anche al piano linguistico, è raccomandabile chiedere, se si sta interagendo di persona, con quale pronome ci si debba rivolgere all’interlocutore, mentre per lo scritto assicurarsi di utilizzare un linguaggio che non sia degradante o discriminatorio: è necessario fare una scelta che sia prima di tutto inclusiva, ma anche consapevole delle criticità.