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Su Gino Mäder, i supereroi e la morte

Per una notte, c’è stata speranza. Per i più ottimisti, di vederlo tornare a correre; per altri, che potesse recuperare una vita autonoma e funzionale; per qualcuno anche solo di averlo ancora tra noi, in questo mondo terreno.
Invece la storia di Gino Mäder, svizzero del Canton San Gallo, si è interrotta nella maniera più brusca possibile: a soli ventisei anni, percorrendo le strade a pochi chilometri da casa sua durante il Tour de Suisse. Mäder, ciclista professionista dal 2019, in forza al team Bahrain Victorious, è uscito di strada in maniera violenta durante la parte finale della quinta tappa, da Fiesch a La Punt Chamues-ch, dove la discesa del passo dell’Albula porta i corridori a lungo oltre i 90 km/h.

Il primo bollettino, pubblicato in serata dall’organizzazione della corsa, è stato da subito molto critico; se per Magnus Sheffield, britannico della INEOS caduto in maniera analoga pochi istanti prima, si parla di contusioni e di una commozione cerebrale, all’arrivo del medico Mäder viene ritrovato «immobile nell’acqua», in un ruscello diverse decine di metri più in basso rispetto alla sede stradale. Il tentativo di rianimazione ed il conseguente elitrasporto in ospedale riveleranno vani, il ciclista svizzero muore la mattina successiva, senza mai recuperare conoscenza, a causa delle ferite rimediate.

Gino Mäder, purtroppo, non è il primo ciclista professionista a perdere la vita. Una macabra pagina Wikipedia intitolata Ciclisti deceduti nel periodo di attività ne conta 62. Limitandoci al ciclismo su strada, prima di Mäder, nel recente passato, è toccato a Bjorg Lambrecht, Michael Goolaerts, Antoine Demoitié, Wouter Weylandt. E ancora, in allenamento, agli amatissimi Michele Scarponi e Davide Rebellin. La lista continuerebbe, dolorosamente, a oltranza.
La scomparsa prematura di un personaggio famoso, ed in particolare di uno sportivo, lascia sempre un doppio vuoto: uno di qua, tra gli appassionati e i tifosi, e uno di là, tra i colleghi.

Quando ho saputo della caduta ero in ufficio. In un momento di pausa di una giornata relativamente tranquilla, scorrendo Twitter, ho visto l’incoraggiamento preoccupato di un altro corridore, Lilian Calmejane, che incitava Mäder a non mollare. A pochi minuti dalla fine della tappa, la notizia dell’incidente non si era ancora diffusa, ma gli appassionati sapevano (o avevano appena visto) le insidie nascoste dalla discesa dell’Albula: una discesa lineare, poco tecnica, con la strada larga e l’asfalto nuovo, ma che proprio per questo porta i ciclisti a spingersi fino a velocità vertiginose.
Dopo poco, l’apprensione si è sparsa a macchia d’olio: in attesa di un comunicato ufficiale, si parlava con insistenza sempre maggiore di un ciclista rianimato sul posto e trasportato in ospedale. Ho scritto immediatamente a Lorenzo, amico, collega ed enciclopedia vivente di questo sport – e non solo – , sperando di poter essere tranquillizzato. Dalla sua reazione ho capito che no, non c’era da stare tranquilli, e che l’ipotesi angosciosa che mi saliva dallo stomaco al cervello avrebbe potuto tramutarsi in realtà. Come purtroppo poi è successo.

Per antonomasia, il rapporto con la morte fa parte della sfera personale più ristretta di ogni individuo. Ognuno ha il suo, costruito nel corso del tempo dall’educazione, dai lutti, dai traumi, dalla cultura personale e collettiva. Di questo, a 26 anni, sono consapevole. Non ero comunque pronto al terremoto emotivo che questa notizia mi ha generato. Non tanto alle lacrime – comunque stranianti, dato che non si erano presentate per lutti molto più severi, di persone teoricamente molto più care a me di un atleta visto ed ascoltato solo in video – quanto al treno di pensieri che questo si è portato dietro. In primis, da ciclista della domenica, è arrivata la paura.
Se è vero che i 100 km/h non li toccherei probabilmente neanche se mi lanciassi in picchiata dal Mortirolo, è anche vero che, con le dovute proporzioni, mi è capitato di arrivare ai 70, con una capacità di guidare la bici infinitamente inferiore a quella dei professionisti. Ma non solo: nel corso del tempo sono scivolato, ho perso il controllo, sono stato sfiorato da autobus e camion su statali trafficate, ho girato di notte, ho mancato precedenze e visto altri mancarle quando mi spettavano. Nonostante odi il protagonismo di chi fa diventare una tragedia che non gli appartiene un fatto personale, non ho potuto in nessun modo allontanare il pensiero che avrei potuto essere io. Non solo lo sfortunato Gino, che comunque di questa passione aveva fatto una professione, ma anche solo uno dei 229 ciclisti uccisi ogni anno in incidenti stradali in Italia (Istat, 2021).
Però è vero che disgrazie del genere possono accadere anche giù di sella, potenzialmente in qualsiasi momento. Ed ecco il secondo, terribile, pensiero: dovesse succede ora, quale sarebbe il bilancio della mia vita? Avrei fatto quello che mi piace davvero? Avrei lasciato nel mondo l’impatto che avrei voluto? Quanti rimpianti mi porterei dietro? Sono passati tre giorni, non ho ancora uno straccio di risposta a nessuna di queste domande. Eppure non smetto di pensarci.

Chissà se, dovunque sia in questo momento, Gino Mäder si senta fiero del suo lascito su questa terra. Di aver messo in mostra, anche se solo parzialmente, il suo straordinario talento (tra le altre, una tappa vinta al Giro d’Italia 2021 e un quinto posto in classifica generale e la maglia di miglior giovane alla Vuelta dello stesso anno, da gregario di Jack Haig), ma soprattutto il suo sorriso, la sensibilità e la spontaineità dentro e fuori dalle gare, che colleghi, giornalisti e addetti ai lavori non hanno mancato di ricordare. E ancora, il suo impegno sociale: proprio dal grande giro spagnolo del 2021 aveva lanciato l’iniziativa, poi protratta per tutto il 2022, di donare un franco svizzero per ogni corridore battuto in ogni giorno di corsa, raccogliendo così l’equivalente di diverse migliaia di euro da devolvere a Justdiggit, un’associazione che si occupa di riforestare il continente africano.

Il peloton, chiamato anche più semplicemente il gruppo, passa gran parte dell’anno a spostarsi per il mondo. Ogni squadra seleziona atleti diversi a seconda della corsa, ma fattivamente prima o poi tutti incrociano tutti: che sia in strada, in albergo, in un camp di preparazione, ad un evento di uno sponsor. Tra i professionisti, si creano rapporti di amicizia e quelli di antipatia, ma la sensazione dall’esterno è che alla base ci sia una sorta di solidarietà invisibile, un sentimento di appartenenza comune, di condivisione di una passione e soprattutto dei rischi ad essa collegati.
Lo ha spiegato bene Alberto Bettiol in un commovente ricordo sui suoi social, che si chiude con l’amara considerazione che «la morte di Gino ci ricorda le priorità della vita, e che siamo appesi a un filo sottilissmo».

 

E ancora, sul tema è arrivato Romain Bardet, con tutta la sua sensibilità: «Buio è il giorno in cui il destino viene a strappare uno di noi, acrobati in lycra, con un’ingiustizia che ci fa a pezzi e che nulla può riparare».

https://www.instagram.com/p/CtjwFPfIDd_/

 

L’intero mondo del ciclismo è stato stravolto da questa tragedia. La tappa successiva del giro di Svizzera è stata neutralizzata e trasformata in una passerella di 20 km in onore di Mäder, all’interno della quale più volte le telecamere si sono soffermate su ciclisti visibilmente provati o in lacrime. All’arrivo era presente anche Sandra, la madre di Gino, a mostrare l’invidiabile forza d’animo di una persona che, straziata dal dolore forse più grande che si possa provare, trova comunque il modo di scendere in strada a ringraziare tutti i colleghi di suo figlio, stringendoli in un abbraccio straziante quasi uno per uno.
I Bahrain-Victorious, dopo aver tagliato il traguardo in blocco davanti al resto del gruppo, hanno deciso di ritirarsi dalla corsa, al pari del Tudor Pro Cycling Team, dell’Intermarche-Wanty-Gobert e di 19 corridori delle altre squadre.

Una volta passato il dolore, la rabbia, il senso di ingiustizia per una morte così difficile da accettare – ammesso che ne esistano di facili – il peso più grande che rimane è quello della dimostrazione pratica dell’incredibile fragilità della vita. E se è fragile per i comuni mortali, lo è terribilmente di più per chi passa quasi ogni giorno della sua vita a sfrecciare costantemente oltre i quaranta chilometri orari in equilibrio su due ruote da pochi centimetri di spessore e sei chili di carbonio. Come in tutti gli sport con una così alta esposizione al rischio, la sensazione all’indomani di una tragedia è sempre che quelli che vediamo da uno schermo, o quando va bene appollaiati sul bordo della strada, siano delle strane specie di supereroi, mutanti a cui è scomparsa qualsiasi traccia di senso del pericolo. E invece sono solo esseri umani, anche loro, coi loro sogni, le loro paure, le gioie e i dolori. A cui, dal 15 giugno 2023, se ne è aggiunto uno enorme.