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La festa del Primo Maggio: dall’Internazionale ad oggi

Il Primo Maggio è l’unica festa (rimasta, ndr) ad esser più vecchia della Repubblica, poiché non deve i suoi natali al contesto nazionale. Tale ricorrenza venne ideata, infatti, in seno al I congresso della Seconda Internazionale, riunitosi a Parigi dal 14 al 20 luglio del 1889. In quella sede la volontà fu quella di organizzare una grande manifestazione in “una data stabilita, in modo che simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, nello stesso giorno, i lavoratori chiederanno alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore e di mandare a effetto le altre risoluzioni del Congresso”.

Rivendicazione per accorciare la giornata lavorativa che venne elaborata già in precedenza, durante la Prima Internazionale, nel 1866, ma allora fu il solo Stato dell’Illinois, negli Stati Uniti, a darle immediata (seppur limitata) attuazione, approvando una legge che sarebbe entrata in vigore il primo maggio 1867. Per quel giorno venne quindi organizzata una grande manifestazione a Chicago, cui parteciparono ben diecimila lavoratori.

Vent’anni dopo, nel 1884, la Federation of Organized Trades and Labour Unions indicò nel 1° Maggio 1886 la data ultima a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno. 400mila lavoratori di 12mila fabbriche degli Stati Uniti incrociarono le braccia. Tutto si svolse pacificamente, ma nei giorni successivi gli scioperi e le manifestazioni continuarono, montando sempre più tensione. La polizia aprì quindi il fuoco, causando circa venti vittime, da quel momento ricordate nella prima giornata di manifestazione: il primo maggio.

Per quanto riguarda il contesto italiano, un volantino diffuso a Napoli il 20 aprile 1890 è uno dei pochi rinvenimenti che restituiscono il clima di incertezza che circondava il primo sciopero, dovuto alla mancanza di un coordinamento nazionale – il partito socialista nascerà due anni dopo –, e della relativa opera di sensibilizzazione realizzata dalle organizzazioni di lavoratori. Esso recitava:

«Lavoratori ricordatevi il 1° maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lasceranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte e conquistare di fronte agli oziosi il posto che è dovuto a chi lavora. Viva la rivoluzione sociale! Viva l’Internazionale!».

https://newzpaper.org/2023/02/07/il-precariato-giovanile-spiegato-bene/

Lo sciopero riuscì, in Italia come altrove in Europa, e negli anni successivi si rinnovò secondo modalità sempre più organizzate. Ogni anno la protesta si arricchiva delle contestazioni sociali del momento e si faceva foriera delle relative rivendicazioni di classe. Nel 1898 rientrò nei più vasti moti popolari per il prezzo del pane. Nei primi anni del ‘900 iniziò a rivendicarsi il suffragio universale. Successivamente si protestò contro l’impresa libica e contro la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale.
Quello del 1919 fu poi un primo maggio di festa per i metalmeccanici, che coronarono il conseguimento dell’obiettivo iniziale: la giornata lavorativa di otto ore.
Nel 1921, salito al potere, Mussolini proibì i festeggiamenti del primo maggio, col solo risultato di rafforzarne la carica sovversiva ed alimentare l’avversione al regime.
Liberata l’Italia, nel 1945 venne restituita al primo maggio la sua valenza storica, che però già nel ’48 perse il suo portato di unione nazionale in seguito all’attentato a Togliatti, cui per poco non fece seguito la guerra civile e che segnò la scissione dalla CGIL della sua componete cattolica nella neonata CISL. Soltanto nel 1970 i lavoratori tornarono a manifestare uniti – tranne che per il biennio 1984-1986.

Venendo ad oggi, come ci ricorda Guy Standing, agli inizi dei 2000 le manifestazioni del primo maggio si sono concentrate sul sempre più gravoso problema del precariato. Nel 2001 cinquemila persone, soprattutto studenti e giovani attivisti, si sono riunite nel centro di Milano per quella che doveva essere una marcia di protesta alternativa del primo maggio. Quattro anni dopo, nel 2005, furono dieci volte tanto, ben 50.000 – secondo alcune stime oltre 100.000 – e l’EuroMayDay, come fu definito, divenne paneuropeo, con centinaia di migliaia di persone, per lo più giovani, scese in piazza nelle città dell’Europa continentale.

Tutti i diritti che diamo per scontati e che qualificano il lavoro per come lo intendiamo oggi sono stati conquistati manifestando. Dall’orario lavorativo allo Statuto dei lavoratori, nel suo dispiegarsi la storia è continua conquista che origina dalla lotta. Ma la lotta scaturisce dalla consapevolezza della propria condizione svantaggiata, dei soprusi subiti che, come nodi, vengono al pettine soltanto attraverso il confronto dei propri vissuti. Se non si discute non ci si rende conto che molto di quel che è ingiustamente accettato, è condiviso, e di conseguenza non ci si organizza per rivendicare il diritto ad esigere esistenze dignitose.

E in un mondo che valuta sempre meno il lavoro delle persone medie e che, nonostante ciò, le porta a considerare il lavoro l’unicum della propria esistenza, c’è bisogno di ripensare la sua valenza all’interno della nostra concezione di vita.

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A causa della shifting baseline syndrome, la sindrome da spostamento dei punti di riferimento, ogni generazione è psicologicamente portata ad accettare come naturali o normali i sistemi in cui è stata socializzata. Ciò comporta la tendenza a lottare per la loro preservazione, anziché per il loro miglioramento, perché manca la storicizzazione delle condizioni in cui ci troviamo inseriti.
Basti guardare alle forme contrattuali che caratterizzano le nuove forme di lavoro agile, alla decrescita degli stipendi medi cui invece corrisponde un’esponenziale crescita di quelli elitari, tassati sempre meno in barba ai principî redistributivi delle moderne costituzioni.

Nel libro Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo, Maura Gancitano e Andrea Colamedici ci portano a chiederci: «chi me lo fa fare di continuare a credere che il lavoro dei sogni arriverà e non mi sembrerà nemmeno più di lavorare? Chi me lo fa fare di continuare a pensare che se mi impegno, prima o poi ce la farò? Chi me lo fa fare di ritenere che non esista un’alternativa?».
Attraverso esplorazioni storiche e accurate ricognizioni del presente, i due filosofi ci spingono a riflettere sulle origini e gli sviluppi del concetto di lavoro mettendone in luce i legami con ciò che abbiamo di più sacro, come la religione o la moralità, e invitandoci a ribaltare la prospettiva sulle retoriche del privilegio e, quindi, del merito. È necessario ripensare il lavoro, ambire al rispetto della diversità. Lottare, innanzitutto, per il diritto al proprio ritmo.