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LA COSCIENZA DI ZETA

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Sulla gentrificazione

Pur essendo rintracciabile nelle epoche e nei contesti più diversi, per capire la connotazione contemporanea del fenomeno della gentrificazione è indispensabile collocarlo nel quadro più ampio dei processi di rigenerazione urbana e, nel contesto italiano, di mercificazione culturale.

La maggior parte dei processi di questo tipo avvenuti negli ultimi anni hanno seguito un percorso abbastanza standard: all’insediamento di artisti e studenti a basso reddito in quartieri storicamente abitati da popolazione povera, segue la rivalutazione da parte del ceto più abbiente, attirato dall’intrinseca coolness dei giovani “carini e disoccupati”. Gli appartamenti e gli edifici assumono dunque una nuova sembianza, aprono nuovi locali, dalle presunzioni stilistiche più artistiche, o perlomeno alternative. I prezzi degli immobili schizzano in tempi anche molto brevi. La comunità originaria del quartiere insieme ai giovani che l’hanno popolato vengono quindi espulsi perché non più in grado di permettersi il costo della vita.
L’etimologia del termine che descrive questo processo va rintracciata nell’inglese gentry, termine storico con cui ci si riferisce alla “piccola nobiltà” – e per estensione all’“alta borghesia”. Il suffisso –ificazione esprime l’intuitivo significato di ‘far diventare come, prendere forma di’. Dunque letteralmente si tratta di un processo di ‘borghesizzazione’. Il termine fu coniato e utilizzato per la prima volta nel 1964 dalla sociologa britannica Ruth Glass per indicare il nascente fenomeno di rinnovamento di quartieri storici e popolari da parte della classe emergente. Un cambiamento che coinvolge contemporaneamente identità urbana e tessuto sociale.

Per quanto riguarda il contesto italiano, il professore Tomaso Montanari ce ne fornisce una disamina premettendo che nella Costituzione italiana paesaggio e patrimonio costituiscono una “diade inscindibile”, teatro della nostra vita civile e politica. In tal senso, si è persa la divisione latina fra civitas, la città in senso stretto, popolata dai cittadini, e l’urbs, la città delle pietre, degli edifici che la compongono, fino a suggerire che il patrimonio culturale, i monumenti, non facciano parte dell’urbs ma bensì della civitas.
Il vero senso della gentrificazione risiede proprio nella rottura del rapporto intimo fra civitas e urbs, per permettere il subentro di clienti e consumatori via via sempre più selezionati per censo e facoltà di spesa ai cittadini originari.
Un processo tipico è quello attraverso il quale si cominciano a spostare le funzioni della città storica alla città moderna, con le università che abbandonano i poli originari costruendo campus periferici e i residenti che vengono espulsi da governi del territorio orientati al mero consumo della città, risultanti in una scissione fra pietre e popolo.
Venezia ne è un esempio lampante: dal 1951 al 2016 ha perso il 52% degli abitanti. Nello stesso periodo di tempo, Bergamo alta ha perso il 38% degli abitanti, mentre sono aumentate di sei volte le case vuote, raddoppiate le case di proprietà, dimezzate quelle in affitto di lungo periodo, e, dal 2010 ad oggi aumentati del 79% gli Airbnb. Le porte della città storica si chiudono sempre più alle giovani famiglie che vorrebbero stabilirvisi, mentre si trasforma nella città dei ricchi e/o nel dormitorio di un certo turismo di lusso.
A Firenze, invece, si contano 28mila presenze turistiche al giorno contro i 18mila residenti del centro storico, con interi palazzi trasformati in alloggi Airbnb. Montanari porta all’attenzione la simpatica scritta comparsa su un muro della città, che da l’idea dell’esasperazione dei cittadini di uno dei pochi quartieri fiorentini in cui prova a resistere una comunità di residenti.

Ciò è reso possibile perché non solo non si governa – come invece accade nei virtuosi casi di Berlino e Parigi, limitando nel nome dell’interesse pubblico i diritti di proprietà privata – ma anzi si favorisce e cavalca l’onda del profitto che scaturisce da questo facoltoso turismo.

Il professore ripercorre dunque le tappe storiche che hanno permesso l’articolarsi di un fenomeno così complesso. “Il treno della mercificazione culturale” parte da un discorso del 1985 dell’allora ministro della cultura Gianni De Michelis – celebrità pop per la fatica letteraria che fu la Guida alle discoteche italiane – per proseguire nel 1992 con la legge Ronchei, arricchita nel 1995 dal ministro Paolucci e attuata nel 1997. Questo processo ha distrutto contemporaneamente lavoro culturale e ruolo dello Stato, stabilendo come i patrimoni culturali – o perlomeno i servizi aggiuntivi ad essi correlabili – si potessero dare in concessione ai privati, che per tali impieghi potevano sostanzialmente ricorrere al volontariato. Ciò che è veramente redditizio, fa notare Montanari, è creare un evento con opere pubbliche, socializzando le perdite e privatizzando i profitti ad appannaggio di poche fondazioni. Dalle mostre in concessione si passa al modello di museo in via di privatizzazione, come mostra l’esempio del Museo Egizio di Torino, primo museo non più esclusivamente pubblico, ma compartecipato da fondazioni bancarie, e quindi nella disponibilità dell’oligarchia locale: il primo presidente ne fu difatti Alain Elkann. In base a chi sarà presidente ci si baserà su alti standard scientifici per la preservazione del patrimonio, o su scelte di commercializzazione.
Con la riforma Franceschini infine, a partire dal 2014, le soprintendenze territoriali diventano uniche, insieme storico-artistiche e archeologiche. Per ragioni numeriche i sovrintendenti finiscono per essere sempre architetti, togliendo sostanzialmente il criterio della competenza e facendo venir meno il nesso fra tutela, studio e ricerca: i musei vengono scelti sul criterio della fatturazione e li si rende autonomi col bilancio, che viene sottratto al territorio. 

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Prosegue Montanari, facendo notare come la città dove forse il processo di gentrificazione è apparso più chiaro sia l’Aquila. Le catastrofi, dai terremoti alla pandemia, sono dei grandi acceleratori e anche delle occasioni di disvelamento di processi che, nell’ordinarietà, si percepiscono meno. Il governo Berlusconi decise allora di costruire le cosiddette new-town fuori dalla città e di immaginare il centro dell’Aquila non più abitato ma come un grande “luna park per il turismo”. Nelle richieste degli storici dell’arte per L’Aquila è stato ricordato che gli statuti medievali dell’Aquila obbligavano gli abitanti a insediarsi uti singuli, cioè a costruirsi la casa privata, la casa della famiglia, solo dopo essersi insediati uti socii e cioè dopo aver costruito piazza, chiesa e fontana nei vari quartieri in cui si insediavano . Le new-town berlusconiane non avevano né la piazza, né la chiesa, né la fontana, avevano solo case private. Erano città di singoli, dove spariva la comunità sociale.
Se altrove si è trattato di un processo oggettivo che si subisce nell’incapacità di governarlo, all’Aquila c’è stata la massima manifestazione dell’ideologia programmatica del processo di gentrificazione, teso a far sparire la comunità politica come tale, e cioè teso a eliminare la possibilità stessa della democrazia.

Chiosa Montanari facendo notare come il patrimonio culturale sia di per sé rivoluzionario, come diceva Carlo Levi: “è ambasciatore del nostro tempo, il testimone di un’altra dimensione del nostro tempo”. Cioè è qualcosa che suggerisce una profonda alterità, diversità del passato, aiutandoci a coltivare l’idea che il futuro possa essere diverso. È una delle forze più potenti per opporsi al “There is no alternative” il motto liberista che vuole il futuro come ineluttabile prosecuzione del presente. “Se il patrimonio culturale viene mercificato, non si tratta della dissacrazione della Venere di Botticelli o delle pietre – cose morte se non c’è una comunità di umani che attribuisce loro significato – ma è invece la trasformazione in consumatori e clienti di chi queste cose le vede”.
Durante la pandemia, fa riflettere Montanari, abbiamo avuto l’occasione di constatare che senza i corpi il nostro spazio pubblico è morto. Allo stesso tempo è minacciato di morte dall’usura operata dal consumo mercantile ed estrattivo degli stessi spazi. È fra questi due opposti che si situa, invece, la possibilità di una politica dei corpi e dello spazio pubblico.

Il patrimonio culturale serve a mantenerci umani, ma se diveniamo consumatori e clienti anche dinnanzi ad esso, abbiamo perso l’antidoto.