NewZpaper

LA COSCIENZA DI ZETA

Cerca

Threads: conflitti, libertà e discriminazione. Ogni opinione è valida?

Lo scorso 14 dicembre ha ufficialmente debuttato in Italia Threads, nuovo social network di proprietà di Meta. Seguendo il classico modus operandi di Zuckerberg, Threads appare quasi come il doppione di un social preesistente, X (ex Twitter), attualmente gestito da Elon Musk. La particolarità di Threads, nonché di Twitter, è di essere basato principalmente sulla condivisione di muri di testo di massimo 150 caratteri circa, cui possono essere allegati foto o video. Nascono quindi con l’idea di creare degli spazi virtuali di condivisione di pensieri e riflessioni più strutturati di quello che può essere riportato in un copy di un post Instagram.

Come Twitter prima di lui, Threads è rapidamente diventato il luogo privilegiato per polemiche sterili, dibattiti, discussioni e per la consueta confusione tra opinioni e violenze verbali. Entrambi questi social aprono sempre le porte alla riflessione su dove sia il limite entro cui muoversi nella condivisione dei propri pensieri, senza incappare in spiacevoli situazioni quali sessismo, omofobia, abilismo o analoghi, e soprattutto quali siano le modalità più adatte per rapportarsi alle persone sui social. Infatti la particolarità per cui Twitter è sempre stato ironicamente famoso è per essere un ambiente estremamente tossico in cui la dinamica base delle relazioni è l’aggressività.

Perché siamo aggressivi sui social?

Prima ancora di chiedersi dove sia il limite entro cui è accettabile esprimere opinioni, c’è un quesito fondamentale sullo sfondo: perché sui social si litiga così tanto?

Queste piattaforme di per sé non possiedono alcun potere arcano capace di far emergere rabbia repressa negli utenti. Dietro alle interazioni ci sono dinamiche indagate dalla psicologia sociale, aggravate dalle modalità in cui si creano relazioni virtuali.
Sono numerose le teorie che provano a spiegare come nascano i conflitti tra gruppi, solitamente legati a interessi fisici o emotivi che vengono messi in gioco. Di fronte alle cause reali, i componenti dei singoli gruppi rielaborano le informazioni sulla base di diversi processi cognitivi soggettivi.
In altre parole, se da un lato ogni componente di un gruppo compete per “vincere” mettendo in gioco parte della sua identità sociale (cioè il suo identificarsi come parte del gruppo), allo stesso tempo filtra le informazioni attraverso il modo di pensare che è proprio del suo ingroup. Questo porta a due effetti fondamentali: la deresponsabilizzazione, ossia la percezione che la responsabilità sia condivisa tra tutti i componenti del gruppo, e l’effetto di omogeneità dell’outgroup, cioè la percezione che i membri del gruppo avversario siano indifferenziati e di conseguenza descritti solo sulla base di stereotipi e pregiudizi.
Ebbene, se queste dinamiche vengono inserite in un contesto in cui gli algoritmi tendono a formare dei gruppi velocemente e sulla base di interessi spesso anche soggettivamente molto importanti (le cosiddette filter bubbles), è facile intuire come il mondo social alimenti la nascita di conflitti. La situazione si aggrava nel momento in cui manca completamente la percezione di stare parlando con una persona reale, motivo per cui social come Threads tendono ad alimentare ancora di più dinamiche aggressive. Da un lato, il fatto che le interazioni siano basate sulle proprie credenze, ideologie e posizionamenti,  dall’altro la mancanza, a volte totale, di un’immagine da associare alle parole che si leggono, fanno sì che la situazione si scaldi facilmente. Chiamasi ideologia dell’antagonismo: il conflitto diventa parte della propria identità di gruppo, in una sorta di loop in cui confermo il mio pensiero e di far parte del gruppo se e solo se i nostri nemici sono in comune.

Cosa fare? Quali sono i limiti?

Allora dove bisogna fermarsi nell’esprimere il proprio pensiero? Perché le dinamiche di Threads finiscono per premiare opinioni spesso sessiste o generalmente discriminatorie?
Di certo l’esperienza di molti può confermare che la polarizzazione nel mondo social è tendenzialmente premiata dall’algoritmo. È evidente che ci sia allora bisogno di chiedersi dove e quando fermarsi.
Da un lato è molto facile appellarsi a costituzioni e codici vari, come la Carta dei Diritti Fondamentali UE in cui c’è un chiaro riferimento al fatto che la libertà di espressione non comprenda la libertà di offendere e/o discriminare. Eppure questo non basta: sessismo, omofobia, razzismo o abilismo sono spesso scambiati per opinioni alla pari di “bello il concerto di Annalisa”. Il punto sta nel riconoscere che una linea netta non possa essere definita, e sta ad ognuno capire quando e come fermarsi, sviluppando quindi una minima consapevolezza riguardo gli argomenti di cui si parla.
Infatti, gran parte del problema sta nella totale mancanza di istruzione, da un lato sui temi sociali, dall’altro riguardo il funzionamento stesso dei social.
Per quanto riguarda i primi, sarebbe ormai fondamentale che parte della educazione scolastica di base comprenda un minimo di formazione in ambito sociale/sociologico, forse addirittura riguardo le teorie che vengono dagli ambienti femministi, antirazzisti ecc. Questo comporterebbe una maggiore consapevolezza di quando si sta andando a toccare argomenti che non ci competono, e di quando quella che crediamo essere una nostra opinione sia in realtà un pensiero carico di pregiudizi smentiti da tempo.
Per quanto riguarda la seconda, l’educazione all’utilizzo consapevole dei social comporterebbe la possibilità di riconoscere molti dei comportamenti prima citati, nonché la consapevolezza che, quando si parla, si sta parlando alla propria bolla. Anzi, nel caso di Threads, che l’intero social sia basato sul far uscire pensieri poco strutturati (150 caratteri sono pochi, anche se si sfrutta il fatto di poterne concatenare vari) dalla propria bolla, e quindi creare conflitti in tempo zero e su scala enorme – vedasi le gogne mediatiche.

Come per quasi tutti i fenomeni sociali, è chiaro che non esista una soluzione semplice. Quello che è evidente è che la scuola e le istituzioni in generale debbano ormai rendersi conto che quella dei social è per la maggior parte delle persone una realtà, una porzione della loro quotidianità. Forse è il momento di rimettere in discussione alcuni capisaldi della nostra formazione, comprendendo dei riferimenti anche minimi che permettano di confrontarsi con realtà sociali, fisiche o virtuali, diverse dalle proprie.