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Il femminismo è per tutt. Intersezionalità e mascolinità femminista

“Feminism is a movement to end sexism, sexist exploitation and oppression”

Così bell hooks (scritto senza maiuscole per volontà dell’autrice stessa) definisce cosa sia il femminismo, aprendo il suo saggio Feminism is for everybody: passionate politics (Il Femminismo è per tutt. Una politica appassionata, edito in Italia da Tamu). hooks stessa afferma di apprezzare questa definizione perché centra il punto del problema, riconoscendo l’origine patriarcale dell’attuale sistema basato sulla violenza e sull’oppressione, tanto da un punto di vista socioculturale quanto da quello politico e istituzionale .
Partire da questo punto di vista è più che mai fondamentale in vista della prossima Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza di Genere del 25 novembre, soprattutto di fronte ai recentissimi fatti di cronaca riguardanti il 105esimo femminicidio dell’anno: quello di Giulia Cecchettin. Uno sguardo femminista permette di interpretare la matrice da cui scaturisce questo tipo di violenza, essenzialmente legato al contesto socio-culturale occidentale patriarcale, costruito sulla base di diversi sistemi di oppressione intrinsecamente legati tra loro.

La lotta femminista è intersezionale
Tale consapevolezza nasce da anni di confronto e di battaglie anche interne allo stesso movimento femminista, nel momento in cui la lotta al sessismo stava lasciando ai margini donne nere, lesbiche o disabili.
A tal proposito è Kimberlè Crenshaw, giurista e attivista statunitense, ad introdurre nel 1989 il concetto di intersezionalità. Crenshaw si pone in maniera critica di fronte alle politiche identitarie, a favore di una visione in cui le oppressioni dei vari gruppi marginalizzati si intersecano e non possono essere separate da una linea netta. Ad esempio, l’esperienza personale e collettiva delle donne nere deve essere analizzata nell’intersezione tra sessismo e razzismo, con tutte le particolarità che tale contesto comporta. Si tratta a tutti gli effetti della teorizzazione di una lotta intestina che stava già avvenendo concretamente: la richiesta di spazio all’interno del movimento femminista da parte di donne razzializzate, che stavano venendo lasciante ai margini.
Poco tempo prima, infatti, personalità come bell hooks stavano rendendo sempre più palese come non fosse automatico che le rivendicazioni femministe degli anni precedenti includessero tutti i gruppi sociali oppressi. Il primo femminismo era essenzialmente bianco, borghese eterosessuale ed abile. La conquista fatta proprio a partire dal femminismo nero è stata di rendere palese che l’inclusione dei gruppi soggetti ad oppressioni molteplici non fosse per nulla intrinseca al movimento femminista stesso.
L’evoluzione del pensiero femminista ha seguito poi questa scia, comprendendo al suo interno anche le rivendicazioni e le teorie queer, concretizzandosi nel filone del Transfemminismo, cui spesso si accompagnano varie attribuzioni come intersezionale, queer, antiabilista o anticapitalista.
Al di là della definizione che si ritiene più opportuna, il concetto alla base è ormai chiaro: il femminismo è considerato tale solo se accoglie al suo interno istanze diverse, mantenendo le loro peculiarità e singolarità, ma consapevoli del fatto che le lotte se unite diventano solo più forti.

Questo breve contesto storico è necessario se si vuole realmente comprendere cosa si intende dicendo che il patriarcato, o meglio il sessismo istituzionalizzato, riguarda chiunque: riguarda la volontà politica di cambiare un’intera struttura sociale marcia, articolandosi tra battaglie storicamente diverse, ma con il nemico comune quale è la violenza strutturale perpetrata ai danni delle donne (o analogamente da altri gruppi oppressi).
Il sistema culturale, sociale e istituzionale è problematico nelle sue basi. Se da un lato è fondamentale ricordare che le battaglie politiche dei singoli gruppi sono separate, e che gli attori principali di ognuna sono differenti, dall’altro è importante rimanere all’interno dell’intersezione. In altre parole, se da una parte ci sono sessismo, razzismo, abilismo o omotransfobia, dall’altro ognuna di queste forme di oppressione è intrinsecamente legata all’altra, o secondo Himani Bannerji addirittura co-costruite (ossia costruite insieme e contestualmente una dall’altra). La formula che hooks utilizza per definire il femminismo nasconde al suo interno proprio questa visione complessa e strutturale della violenza e dei fenomeni sociali.
Parlare di sessismo, o di violenza di genere più nello specifico, vuol dire infatti additare un’intera struttura che privilegia in ogni caso gli uomini (soprattutto se bianchi, eterosessuali, abili, benestanti).

 

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La mascolinità femminista
Gli uomini infatti non sono per nulla assenti in questo discorso. Per quanto mainstream, dire che il femminismo serve anche agli uomini è vero. hooks non a caso dedica un intero capitolo, Feminist Masculinity, a sondare i rapporti che ci sono e ci sono stati tra i femminismi e la mascolinità.
Il problema non sta nella lotta contro il genere maschile di per sé, piuttosto contro una cultura e una società di stampo patriarcale. Il focus di hooks si concentra infatti proprio sulla costruzione di un tipo di mascolinità che abbandoni la convinzione che “their sense of self and identity resides in their capacity of dominatig (“che il loro senso di sé e della propria identità risieda nella loro capacità di dominare”). Questo vuol dire essenzialmente liberarsi di tutti quei limiti, anche emotivi e psicologici, che spesso si riassumono in “anche gli uomini possono piangere”. Vuol dire attivare un processo di reale formazione della propria identità che si separi da stereotipi pericolosi per sé e soprattutto per le altre persone. hooks ritiene fondamentale il discorso sullo sviluppo di autostima come conseguente alla decostruzione di sistemi di pensiero pervasivi e limitanti per se stessi, oppressivi e violenti per chiunque altro.
Questo ovviamente implica una rinuncia alla propria posizione di privilegio, e la costruzione di una coscienza e di un’identità sociale che permetta di riconoscere la radice patriarcale della società in cui viviamo, per questo fortemente legata al ruolo di potere socialmente donato agli uomini in quanto tali.
Ad esempio, il dibattito, spesso anche violento, che ruota intorno al not all men riguarda proprio questo. La richiesta per gli uomini non è di addossarsi la colpa e il peso di tutto il sistema socioculturale, né tantomeno delle singole violenze perpetrate ai danni delle donne o di qualsiasi soggettività marginalizzata. Si chiede di riconoscere la responsabilità, insita anche nelle pratiche quotidiane, che comporta la posizione di privilegio ricoperta per nascita dagli uomini e la violenza che ne consegue, prendendo consapevolezza di come l’esistenza di questo sistema passi attraverso la nostra identità sociale (ancora mai costruita in quanto uomini). Questo vuol dire sviluppare coscienza di sé e autostima lontane dalla cultura del dominio, della violenza e dello stupro, nella speranza che quest’ultima esca fuori anche dalle istituzioni.


Fare ciò vorrebbe dire fare un primo passo verso la costruzione di una società completamente nuova (forse sulle ceneri di quella attuale), in cui le soggettività oppresse non sono più tali, di cui tutti gioverebbero. Chi in termini di autostima, chi in termini di vera e propria sopravvivenza.